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30 anni di Doom!

Mi sono appena accorto che quest’anno Doom compie trent’anni. Happy fucking birthday! Uscì infatti il 10 dicembre 1993, rivoluzionando il mondo dei videogiochi. Lo so, inutile perdersi in spiegazioni superflue, tutti noi siamo cresciuti con questo gioco della madonna. Infatti non starò a dir nulla su di esso: il solo fatto di aver citato più volte elementi a proposito, mi denuncia come fan sfegatato. Ma questo non vuol dire che non abbia nulla da dire in generale… specie riguardo la musica. La colonna sonora originale in formato MIDI fu composta da Bobby Prince, evidentemente appassionato di metal e grunge, che tra il primo capitolo e il secondo non si fece certo pregare a realizzare cover interessantissime e al limite (non superato) del plagio. E di questo non possiamo che ringraziarlo.

Conobbi Doom nella versione Super Nintendo. All’epoca ero assolutamente affascinato dalla novità dei First Person Shooter, la cosa che più sembrava una specie di realtà virtuale. Avevo ardentemente desiderato Wolfenstein 3D e me lo godetti moltissimo, ma con Doom, che le riviste dell’epoca esaltavano oltre ogni dire, mi ritrovai scaraventato in un universo alternativo incredibile, inquietante, angosciante, spaventoso, disturbante, bello da morire. Ricordo ancora la prima partita: il gioco iniziò da solo, niente menu, niente start, niente, solo la schermata di presentazione e subito nell’azione (oddio, “subito” per modo di dire, rimasi lì come un rimbambito a fissare lo schermo, credendo che fosse una demo, e solo dopo alcuni secondi provai a premere i tasti per scoprire che ero già in mezzo al gioco…). La grafica, rivista oggi, è davvero sfocata*, io vedo in quel modo quando mi tolgo gli occhiali, ma in quei giorni era folle, una realtà virtuale immersiva e coinvolgente. Quante ore ho passato su Phobos, Deimos e l’Inferno stesso; quanto ho esplorato, per conoscerne ogni angolo. E che musica! Su questo, il Super Nintendo era sempre una spanna sopra tutte le altre console. Uno dei miei brani preferiti, “On the Hunt“, su SNES era anche in una delle mie mappe preferite, “Pandemonium” (peccato che nell’originale su PC ne abbia un’altra). Un’altra che mi ha accompagnato a lungo, “Sinister“, era peraltro in una mappa (un’altra che adoravo) che mi capitava sempre di giocare in giorni di pioggia. Quando arrivavo lì, il cielo era inevitabilmente scuro. Coincidenze, certo… certo. Comunque, tutta la playlist è una versione ottimale dell’originale.

* [però ho trovato un sito dove si può giocare la versione originale online gratis, e spalmato sullo schermo piatto del mio laptop non è poi molto diverso]

La versione per PlayStation, uscita nel ’95, era profondamente diversa nell’atmosfera: in breve, quando ogni console degli anni Novanta otteneva il suo port, si finiva con l’avere una versione di Doom con qualche caratteristica assolutamente originale - e non sempre positiva: per esempio una finestra di gioco ridotta, una qualità video molto pixelosa o, persino, l’assenza totale proprio della musica, per motivi di compressione, spazio, soldi ecc. Nel caso della PS1, si trattava di audio e video: per il secondo, pur vantando una fluidità e una chiarezza senza pari, c’era una desolante conformità degli scenari (niente più sale computer piene di grafici et similia, solo infiniti “pannelli” privi di sex-appeal). Per il primo, una intera colonna sonora completamente nuova e realizzata appositamente! Certo, niente più pseudo-cover heavy metal di Bobby Prince… ma in cambio di una delle atmosfere più inquietanti, foriere di disagio e disturbi psichici che mi sia mai capitato di sentire. L’autore di questa angoscia in musica è Aubrey Hodges, che più tardi l’avrebbe anche pubblicata in album. Confesso che all’inizio ne rimasi deluso, abituato com’ero alla versione SNES che, sebbene pixelosissima, era praticamente il gioco originale; ma col tempo ho iniziato ad apprezzarla, a immergermi nella follia che suggeriva, a lasciarmi compenetrare dalle immagini mostruose e disperanti che evocava. Ed evoca tutt’ora. Su YouTube non ho trovato versioni dei brani con i titoli, ma stando a quanto elencato nella pagina di Hodges, uno dei miei brani preferiti di questa colonna sonora è molto giustamente intitolato “Mind Massacre“. Godetevelo e, se ne avete voglia, ne aggiungo un’altra da incubo, “Breath Of Horror“, che vi [s]consiglio di ascoltare di notte, da soli, al buio.

Data la consapevolezza del trentesimo anniversario di Doom, i video speciali si sono susseguiti durante tutto l’anno. Grazie a AVGN, che ha fatto uno speciale sulle versioni del gioco, ho scoperto che il port per il 3DO (questa console così piena di potenziale eppure così mal sfruttata sotto ogni aspetto e su ogni fronte) non solo ha la colonna sonora originale di Bobby Prince, ma addirittura in una versione eseguita con strumenti veri! Il risultato è la miglior versione possibile della musica… applicata alla peggiore conversione possibile del gioco. Chiaro che parlo per sentito dire, io non ho mai nemmeno visto un 3DO dal vivo. Ma dai video in rete è tremenda. Pare che dovesse almeno presentare delle cutscenes piuttosto brutali tra una mappa e l’altra, ma pur avendole girate non hanno avuto modo di inserirle – né sembrano rintracciabili altrove (nell’anteprima del brano potete infatti ammirare un mostro che sarebbe dovuto apparire nelle suddette cutscenes). Le musiche, da quanto vedo, non sono proprio tutte, ma bastano e avanzano per un ascolto davvero coinvolgente. Vi lascio quella della prima mappa.

E chiudiamo con questa rapida carrellata sulle musiche di Doom. Il terzo capitolo è l’ultima versione che abbia giocato fino in fondo, dapprima come shareware su PC, con un cd allegato a “The Game Machine” se non sbaglio; quella fu già una forza, perché c’era una possibilità pressoché infinita di esplorare, specie prima del disastro che dà avvio al gioco. Poi, nella versione Xbox originale, che invece è più votata all’azione, più lineare, ma non per questo meno immersiva. La cosa che mi era piaciuta sin da subito è che si trattasse di una sorta di remake dell’originale, con tutta la storia di cosa è successo sin dall’inizio, ossia di cosa la UAC avesse trovato su Marte, come avesse tentato di usarlo e come fosse andato tutto storto – o tutto secondo i piani (di Betruger). Fantastico il design dei mostri, sempre fedeli a se stessi eppure rinnovati. L’atmosfera era come sempre inquietante, mi sono rimaste impresse alcune situazioni: per esempio, passando da una specie di sala macchine immersa nella nebbia, ho prima sentito un rumore, poi ho visto emergere delle ombre che si sono rivelate zombi; più avanti nel gioco, ho sentito sussurri negli angoli di stanze isolate e lamenti nelle pareti dell’Inferno. Persino un po’ di humor: in una zona “infernalizzata” ho trovato un computer dove qualche demone aveva scritto una specie di circolare per richiamare i compagni all’ordine durante i riti satanici! O qualcosa di simile, comunque cose fuori di testa. La colonna sonora, da quanto ricordo, è praticamente inesistente, a parte qualche effetto sonoro in alcune situazioni e scene animate (bello quello dell’incontro col Cyberdemon). Però l’introduzione vanta un brano magnifico, che per fortuna ho trovato in versione extended, e che, naturalmente, lascio qui. Chicca: nella versione Xbox, a gioco completato, si sbloccava il Doom originale come bonus, esattamente come accadeva nel port di Return to Castle Wolfenstein (cosa buona a sapersi). Altra cosa: giocai anche l’espansione, Resurrection of Evil, più dinamica, ma anche più corta.

Un’ultima considerazione sull’onda dei ricordi. Credo che l’accoppiata Doom e Mortal Kombat II su SNES sia stata una delle esperienze estetiche più luciferine che mi sia potuta capitare durante la prima adolescenza. Il televisore sembrava colare di liquidi infernali e invadere le coscienze mia e di mio fratello, ricordo infatti che un giorno ci siamo guardati e detti “oh, ma non sarà che davvero c’è lo zampino del diavolo?!”, ovviamente ridendo, scherzando e segretamente sudando per non farcela sotto. Bei tempi, cazzo. Bei tempi. Le rare volte che ho la possibilità di rigiocare a questo capolavoro, è come se tornassi in luoghi familiari a trovare dei vecchi amici, per massacrarci insieme.

Auguri, Destino Funesto! Grazie per tutto il massacro.


Memorie dal Metallo – V

Sommario

  • Metal e arte
  • Metal e cinema
  • Metal e videogiochi

Per concludere questa serie, condenserò alcune relazioni evidenti tra il Metal e varie forme artistiche di intrattenimento e immaginazione, che ne completano imprescindibilmente l’identità. Fa caldo e questa parte, che avevo iniziato tempo fa, è impegnativa se fatta bene… pertanto la farò male.

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Metal e arte

Il metal si combina molto bene con le arti grafiche, infatti non credo di esagerare se dico che una parte rilevante del fascino di un album deriva dalla sua copertina, che dice molto della band stessa. Gli Iron Maiden sono stati pionieri in questo. Anzi, volte l’artwork è molto meglio della musica incisa sul disco… e non mi sto riferendo a loro, ma per esempio ad alcuni dischi di Danzig; però ne parliamo dopo. Ora voglio iniziare con un paio di artisti divenuti famosi nel tempo, anche grazie al lavoro sulle copertine musicali. [Ho usato le immagini su wikipedia per la maggior parte, ma sono piccole. Cercatene voi altre più grandi, per favore.]

Il primo di cui voglio parlare, come dovrebbe ormai essere intuibile e scontato è Joe Petagno, l’ideatore dello Snaggletooth per i Motorhead e autore di quasi tutte le loro copertine. Una cosa che mi è sempre piaciuta è vedere una mascotte evolversi nel tempo: dall’originale a Overkill, da Orgasmatron a Sacrifice, da Snake Bite Love a Inferno e infine a Kiss of Death, dove lo Snaggletooth “muore” (fine della collaborazione tra artista e gruppo). Senza dimenticare lo straordinario Another Perfect Day e tutti quelli che non ho mensionato. Al di là della mascotte di Lemmy & co., Petagno ha naturalmente lavorato con molti altri gruppi.

Un altro artista che mi ha colpito negli ultimi anni, altrettanto infernale nei temi e forse più morboso, è Eliran Kantor, i cui soggetti sono spesso corpi deformi in situazioni violente, ma con una vena “classicista” e genericamente calma, che rende tutto più inquietante. Nella sua pagina trovate tutto.

Al di là degli artisti, ci sono poi copertine affascinanti, a iniziare da Arise dei Sepultura, che sembra avere un dettaglio in più ogni volta che la guardo; è un po’ l’essenza del metal estremo, per me.

Avendo nominato Danzig, intanto è interessante notare che il suo simbolo, presente sulla copertina del primo album, è un’appropriazione indebita da un fumetto (indebita perché lui non ha mai ammesso di aver “rubato” il disegno, avendolo ridisegnato uguale). La cosa però si sposa bene con la sua passione per i fumetti, perché una versione simile se l’è fatta ridisegnare da Simon Bisley per un altro disco, continuando la collaborazione per altri due album almeno, questo e questo. Dicevo che a volte la cover è meglio del disco: io adoro Danzig, sia chiaro, ma nella seconda metà degli anni novanta si è dato all’industrial, e non tipo Rammstein, proprio industrial elettronica, che io detesto. Eppure la copertina dell’album 6:66 Satan’s Child era di Bisley! C’è mancato poco che lo prendessi. Perché Bisley è uno dei grandi disegnatori di Lobo, è esagerato, sporco, truculento, sia in bianco e nero che a colori; infatti ha collaborato molto a Verotik, il progetto fumettistico di erotic-horror di Danzig.

Non sono invece un fan di King Diamond, ma il suo Voodoo è nella mia collezione in quanto l’artwork è eccezionale. Non solo la copertina, anche l’interno; racconta benissimo la storia del concept album, rovinato solo dal suo canto in falsetto. Questo è un esempio perfetto di acquisto basato sulla pura estetica, sperando che la musica fosse decente (e a modo suo lo è).

Poi ci sarebbe tutto il putrido mare di copertine in ambito death metal, che fanno a gara per essere più horror/splatter di quanto sia sopportabile. Alcune, come quelle dei Cannibal Corpse, sono decisamente sopra le righe, eppure dettagliate e interessanti, come questa. Mi è tornata in mente quando ho giocato a Splatterhouse.

Qualcosa di più bello, adesso. I Judas Priest possono vantare copertine molto particolari, come questa, questa, ma anche questa e persino questa. C’è qualcosa nello spazio, nel dinamismo dei disegni, nell’uso dei colori, che le rendono un oggetto estetico molto attraente; in questo caso, la musica non delude di certo.

…oddio, ci sarebbero tanti altri esempi da fare, ma sto terminando questa quinta parte alle 02:00 e sto davvero fondendo. Mi verranno in mente altre grandi copertine e forse piazzerò un aggiornamento, ma ora devo fermarmi. Quanto segue è invece più completo.

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Metal e cinema

Ora approfondiamo un po’ la questione del cinema, perché ho nominato già Fusi di testa, pieno di fantastiche canzoni (oltre che di stile di vita desiderato) e devo dire che dalle colonne sonore degli anni Novanta ho tratto parecchie altre grandiose conoscenze. Era la mia adolescenza, tutta questa roba la ascoltavo con un lettore CD portatile che a me sembrava futuristico, con gli auricolari mentre disegnavo su quaderni a righe spillati uno all’altro. Che nostalgia, per quei momenti. Per altri no. Ma per quelli sì.

Il primo che voglio citare qui è senza dubbio Mortal Kombat (1995), all’epoca l’unico adattamento veramente fedele al videogioco da cui era tratto (lo sottolineo perché nei due anni precedenti uscirono anche Street Fighter – Sfida finale e Super Mario Bros., che col materiale originale si erano presi ENORMI libertà). La colonna sonora è molto variegata, spaziando dalla musica elettronica – indimenticabili i titoli di testa – e al metal, appunto; e in questo aspetto sono riconoscente a chi scelse i Napalm Death per la scena del combattimento di Goro. Nell’album erano incluse anche canzoni non utilizzate nel film e una di queste era dei Type O Negative, nello stesso periodo in cui ne vedevo i video su Mtv. Sempre riguardo agli scontri, quello che secondo me è il miglior duello, Johnny Cage contro Scorpion, vibra sulle note dei Fear Factory. Qui lascio anche una versione estesa della colonna sonora, che include la musica orchestrale composta appositamente.

Un altro film, molto sottovalutato in sé, ma con una colonna sonora da urlo, è Last Action Hero – L’ultimo grande eroe (1993), di cui lascio intanto l’album completo. Gli AC/DC aprono con una vera perla, mentre scopro nuove vette per i Megadeth e sento, credo per la prima volta, gli Alice in Chains. E ho l’occasione di conoscere meglio gli Anthrax, che già avevo sentito assieme ai Public Enemy e avrei ritrovato poi nei dintorni di Twin Peaks (lo so che sono parte dei Big 4, ma all’epoca le informazioni c’erano solo su cartaceo e in tv).

Come al 90% del pubblico, Il Corvo 2 (1996) non è piaciuto neanche a me. Ma l’album uscito all’epoca mi ha presentato artisti nuovi e diversi, da PJ Harvey a Iggy Pop (che però già avevo sentito in Trainspotting), da Hole a White Zombie.

Poi c’è Fuga da Los Angeles (1996): nell’album di canzoni, da affiancare alla colonna sonora originale di Carpenter e Walker (che stavo cercando e non trovai mai), presenta quello strano mix in voga all’epoca di “music from and inspired by”, cioè le canzoni effettive del film e altre buttate dentro per riempire il disco. Grazie a questo ho conosciuto i Tool, gli Stabbing Westward (poi ritrovati in un videogioco di Duke Nukem – del cui tema principale fecero peraltro una cover i Megadeth, vedete come tutto gira?), ‘naltra volta White Zombie e, tra gli altri, i Butthole Surfers, della cui canzone a quanto pare non c’è traccia su YouTube.

Forse lo ho già nominato, comunque Dal Tramonto all’Alba (1996) è un altro tesoro di artisti: tra i molti, Tito & Tarantula, The Blasters e ovviamente i ZZ Top su tutti (la versione nel film/OST è leggermente diversa da quella nel video ufficiale, ma la sostanza non cambia).

Airheads (1994) non lo ho visto finora, ma lo conosco per un procedimento al contrario: ho scoperto il film grazie al video dei Motörhead.

Anche nell’album del deludente Spawn (1997) ci sono delle chicche, sebbene sia molto più evidente la vena elettronica; infatti diversi brani sono collaborazioni tra artisti di vario tipo e remixatori, però Filter & The Crystal Method, Marilyn Manson e Orbital con Kirk Hammett sono ottime scelte.

Al volgere del secolo, le cose sono cambiate. Dei pochi film successivi agli anni Novanta che mi hanno lasciato un segno, segnalo certamente Fantasmi da Marte (2001), la cui colonna sonora originale è stata fatta da John Carpenter in collaborazione con altri artisti e, se si eccettua l’introduzione, ha una carrellata di brani heavy metal strumentali da paura. Chiudo quindi con L’uomo d’acciaio (2013), che mi ha fatto scoprire uno splendido brano di Chris Cornell mai sentito prima, non avendo all’epoca ancora visto il film Singles – L’amore è un gioco (1992), che è a tutt’oggi una raccolta dei migliori artisti della scena grunge.

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Metal e videogiochi

I videogiochi sono stati un altro grande campo di influenze musicali. Di Billy Kane ho già detto, e in verità devo tralasciare parecchie musiche che non sono metal e, dunque, non posso inserire qui senza trasformare questo articolo in un altro (sarebbe meglio semmai fare un altro articolo più generale).

Doom (da cui la scelta dell’immagine qui sopra), uno di quei giochi che hanno segnato la storia, è notoriamente pieno di riferimenti alla scena musicale degli anni Novanta; per questione di lunghezza, mi limito a segnalare un paio di video che provano a dar conto di quanta musica sia stata ‘copiata’ da Bobby Prince, qui e qui. Alcune musiche sono evidenti, altre meno, io ne ho riconosciute di più in Doom II. Comunque sia, massacrare demoni su quelle note è un’esperienza fantastica; ne segnalerei peraltro la versione pompata dell’altrimenti pessimo port del 3DO e la versione pienamente metal di Sonic Clang. Insomma, Doom e heavy metal vanno a braccetto.

Ci sono però videogiochi che vantano le canzoni originali, quelle degli artisti veri: ho speso anni, prima di internet, per trovare le musiche rese in Rock’n’Roll Racing, nella versione SNES. Io non oso pensare a quanto abbiano sborsato per i diritti di Black Sabbath, Deep Purple, George Thorogood e persino Harry Mancini…! All’epoca non avevo idea che fossero tutte musiche reali, conoscendo solo il tema di Peter Gunn, grazie ai Blues Brothers. Poi vidi Robocop 2 e mi accorsi che il violinista-contorsionista stava suonando una musica del gioco! Uaoh! E come mai? Da lì, piano piano, recuperai i capolavori che stavo inconsapevolmente ascoltando.

Stessa questione per Road Rash nella versione PlayStation, che mi ha aperto al mondo del grunge, tra l’altro presentando artisti che in seguito non hanno lasciato un gran segno, come Paw o Hammerbox, a differenza di Soundgarden o Therapy?. Considero questo gioco come una porta verso un mondo che si è fuso incondizionatamente alla mia formazione.

Chiudo con Quake II, la cui colonna sonora, di Sonic Mayhem, è il ricordo più vivido delle serate universitarie solitarie, passate in un monolocale sperduto nella grande città a sparare, mangiare porcherie, fumare sigari puzzolenti e distrarsi dalla disperazione esistenziale (stesso periodo di quando comprai il disco dei Six Feet Under, come detto nella prima parte). E con Loaded, che si intrecciava coi fumetti di Lobo.

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Chiosa di un amico metallaro, uno che vive il metal:

“Non sei tu a scegliere il Metal; è il Metal a scegliere te.”

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Le memorie dal metallo forse non sono esaurite, ma le cose più importanti ci sono. Grazie per aver seguito questo treno dei ricordi.


Memorie dal Metallo – IV

Sommario

  • Il Metal è “morto”?
  • La mia band (inesistente)

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Il Metal è “morto”?

La sua carica di rabbia e di provocazione lo hanno reso un genere fortemente inviso al perbenismo imperante, ma in modi molto più duraturi rispetto al punk, che come sottocultura è morto nel giro di pochi anni (sì, punk is dead, altro che cazzi). Ma credo che oggi, con la normalizzazione commerciale di ogni estremismo e lo sdoganamento di cose altrimenti considerate tabu, come le scene esplicite di sesso o di tortura nelle serie tv, o l’abbassamento degli standard etico-morali nella sfera pubblica (tra dibattiti a suon di insulti e opinioni autoreferenziali, nonché il costante discredito gettato su ogni forma di autorevolezza), sia divenuto molto difficile scioccare la borghesia, essere realmente provocatori, dissonanti e fuori dal coro. L’unico modo di farsi notare in questo senso è diventare inaccettabili, e per diventarlo si devono fare cose che spostano ancora più in là i limiti del cattivo gusto e della sopportabilità; questo vuol dire però che dopo aver oltrepassato il limite, con scandalo generale, quel che era inaccettabile diventa almeno tollerabile, e bisogna far di peggio. A questo livello, non basta neanche più un genere musicale, o meglio la musica non c’entra più, diventa una questione di azioni e reazioni che porta solo ulteriore schifo alla ribalta.

Il metal, come sottocultura, non ha più la spinta per essere l’avanguardia dell’estremo. Oggi non è neanche più possibile la nascita di miti, stratificati in notizie vaghe e centellinate, con l’attuale rapidità di informazione e ricerca. Altro che Inner Circle. L’unico che, a mio avviso, oggi riuscirebbe ancora a far uscire di testa le signore che vogliono “proteggere i bambini” sarebbe GG Allin, morto da trent’anni. Per il resto, il metal è diventato un altro genere scaricabile su cui fare più che altro ricerca giornalistica. Le nuove generazioni vivono in una realtà molto diversa dalle ultime tre decadi del secolo scorso e questo è inevitabile, normale, pacifico. Le cose peggiori, oggi, sono espresse da generi musicali in cui il sessismo è esplicito e i valori sono bassi e degradanti, ma che incontrano successo e popolarità. Perché? Perché sono cambiati i valori, le prospettive e i problemi dei giovani.

Per questo di può dire che, in un certo senso, il metal è “morto”. Come sottocultura lo è sicuramente. Come genere musicale può sopravvivere, ma allo stesso modo del punk. Negli anni ’90 le cose sono cambiate in modo drastico: tra la svolta mainstream dei Metallica, seguiti a ruota da tanti altri, e il sorgere di un nuovo genere più sentito dai giovani (e più sfruttabile dalle major), il grunge, è divenuto ineluttabile il declino del metal classico, che solo grazie al “nu metal” ha potuto superare il secolo. Solo che poi anche il nu metal si è rivelato un altro tassello della disfatta: ho amato i primi Korn, apprezzato i successivi e abbandonato il resto; sono rimasto sconvolto dagli Slipknot del primo album, ho apprezzato quelli del secondo e ancora ancora quelli del terzo, poi mi hanno rotto i cosiddetti. In realtà, anche per questo ho avuto la possibilità di riaprirmi ad altri generi: a parte tanti altri artisti che mi piacevano a prescindere, come Type O Negative, Rollins Band, Suicidal Tendencies e le icone del grunge quali i primi Pearl Jam, i Soundgarden dall’inizio alla fine, i Nirvana (un rapporto strano con loro: comprai Nevermind e mi chiusi in casa per una settimana ad ascoltarlo a ripetizione, poi lo misi sullo scaffale e non lo ripresi più) e naturalmente gli Alice in Chains… a parte loro, ho iniziato a rivalutare lavori che da metallaro “duro e puro” avevo snobbato; a interessarmi al rock’n’roll delle origini con Elvis, Little Richards, Jerry Lee Lewis, Chuck Berry e Bill Haley & The Comets; a riprendere gusto per una serie di artisti e generi che pure mi avevano influenzato nell’infanzia, come i Blues Brothers; a scoprirne di nuovi e non per forza di provenienza anglosassone, da classici italiani come Renato Carosone e Fred Buscaglione (ma anche Gabriella Ferri), a classici brasiliani come Tom Jobim, Elis Regina, Moreira da Silva Falcão. Ma anche questa è un’altra storia.

In definitiva, ha davvero senso dichiararmi ancora metallaro? Se la vediamo in senso stretto, probabilmente no. Perché non seguo più il metal come sottocultura e stile di vita, nemmeno più come moda (d’altro canto, uno si veste come si sente più a suo agio, ed io mi sento meglio in giacca e cravatta, ora, che con jeans e maglietta – dipendendo dal contesto, almeno). Ma cazzo, quando salgo in auto eme lo sparo a diecimila, faccio tremare le lamiere pure delle altre auto!

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La mia band (inesistente)

Negli anni, ho progettato anch’io la mia band heavy metal. Così come ho progettato film e romanzi. Tutto rimasto nei cassetti della mia mente, ovvio. Mettiamo subito in chiaro che io non capisco un bel cavolo di niente di tecnica musicale, ritmo, melodia, note, niente. Non sono neanche un buon ascoltatore, al contrario di quelli che sanno dire perché Lars Ulrich farebbe schifo, o perché i Venom non saprebbero suonare, ecc.; per me la musica, a cominciare da questo genere, è come il vino: lo assaggio, se mi piace è buono, se non mi piace te lo puoi tenere. Ok? Altrimenti sarei un musicista, o un giornalista del settore. E non sono neanche un audiofiloDetto questo, ho immaginato stili, canzoni, testi, titoli e persino videoclip dei METALLOSOFIA, gruppo poliedrico che riversa in canzoni di vario stile (sottogeneri del metal, uno per canzone) elucubrazioni filosofiche, satire avvelenate e imprescindibile auto-perculamento. Primo album: Filosofia del Metallo (appunto), oppure Parla il Martello, in omaggio a Nietzsche. Testi preferibilmente in inglese, ma anche in italiano. Tre o quattro elementi (preferirei tre), suonando in maniera rozza ed efficace, in contrappunto all’immagine da tromboni filosofeggianti, fra ostentazione di libri, mobili in legno, abiti a tre pezzi o maglioni a collo alto, spaziando tematicamente dall’Illuminismo al Nuovo Realismo. In generale il modello più concreto cui ispirarsi è di un gruppo alla Dethklok di Metalocalypse, specie se io fossi in grado di suonare tutti gli strumenti e cantare (one-man band); altre grandi ispirazioni sono naturalmente Gli Atroci, i Sons of Butcher e i Tenacious D. Senza dimenticare l’autoironia dei russi Anj, che nell’adattamento di una loro canzone per il videogioco Stalin VS Martians (dico, “Stalin contro i marziani”, rendiamoci conto), di certo non si sono fatti problemi. Insomma, essere demenziali quanto basta, prendersi sul serio solo quando necessario, per far bene le cose. Impegnati a far riflettere, ma sempre con ironia. Ovvero sia, un progetto irreale, ma concepito partendo da un punto fondamentale: verità. Non si può far musica partendo dalla menzogna, non si può far passare un’immagine falsa di se stessi. Le mie esperienze sono legate allo studio, non alla vita di strada, dunque canterei di cose legate alla filosofia e ad altre discipline, canterei sulla società e l’umanità dal punto di vista antropologico, storico, sociologico, psicologico, non certo atteggiandomi a delinquente o nullatenente. Sono un tizio qualsiasi che ha studiato filosofia, guardato un mucchio di film e giocato a tanti videogiochi sempre accompagnato da pizza, birra e patatine, disegnando le sue perversioni in fumetti improbabili, mentre favoleggiava di rivoluzioni in una generale solitudine. Di questo dovrei parlare, perché di altro non so dire. A parte la voglia di massacrare la gente che non mi va a genio, ed è parecchia.

A presto per la quinta e ultima parte.


Memorie dal Metallo – III

Sommario

  • Metal e politica
  • E ora, il ripescaggio

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Metal e politica

L’heavy metal, derivando dal rock’n’roll, non poteva certo essere esente da questioni politiche. In realtà, si può dire che ogni genere musicale sia politico, in un modo o nell’altro; ma il rock è stato sin dall’inizio scandaloso, trasgressivo, sovversivo, in molti modi e in vari sensi. Dalla commistione tra musica “bianca” e musica “nera” nell’America degli anni Cinquanta (dove negli stati del sud vigeva la segregazione razziale), al ritmo sfrenato che induceva a ballare e a divertirsi (cosa che i puritani non sopportano, perché è sensuale), agli eccessi di tante rockstar per decenni, il rock e i suoi derivati sono sempre stati una sfida al conformismo e, via via che la musica si induriva e diventava più aggressiva, anche una valvola di sfogo per rabbia e tensioni sociali. Dunque, generi come il punk e il metal sono politici in se stessi, anche al di là di una chiara presa di posizione dei singoli artisti.

Il distinguo, però, sta nel modo in cui questa politicità è espressa. Alcuni gruppi e artisti hanno spesso rilasciato dichiarazioni politiche personali, talvolta ambigue, talvolta esplicite, venendo spesso etichettati come nazisti, anarchici, comunisti e via dicendo. Questo pone, di solito, uno stigma anche sulla loro produzione artistica, per cui ascoltare certi lavori equivale a dare supporto alle tesi politiche di chi li produce. Esempio classico: se gli Slayer vengono etichettati come nazisti e ti piace la loro musica, sei nazista pure tu. Beh, qui entra in gioco un equilibrio difficile tra la persona, l’artista e la fruizione musicale: dal mio punto di vista, un artista che si dichiara nazista (cosa che gli Slayer hanno negato sempre, eppure sfruttato in maniera opportunistica) è per me una merda disumana, ma se nella sua musica non fa cenni alle sue idee politiche, allora pur disprezzando la persona posso accettare l’artista. Cosa per nulla semplice, perché se io penso a Varg Vikernes mi riesce estremamente difficile separare l’assassino e il nazionalista odalista dal talento musicale che ha realizzato un album del genere; stessa cosa per Bard Faust, batterista degli Emperor e omicida di un ragazzo omosessuale. [Avevo già ponderato sul tema qui]

Anche i Motörhead, nel loro piccolo, hanno suscitato qualche brivido e incomprensione, iniziando con una piccola svastica sul loro simbolo, poi rimossa; Lemmy, dal canto suo, aveva una collezione di cimeli nazisti (come Hanneman, degli Slayer), che lo ha messo in cattiva luce per anni, nonostante abbia fatto numerose dichiarazioni in merito (“I’m not racist at all,” he argues. “I just like the decorative aspect of the Nazis. I like the pageantry, the pomp. I like a parade. The bad guys always have the best uniforms.”). Di questo ne dovrei parlare meglio, comunque è evidente da tante altre cose che Lemmy fosse sincero nel dichiararsi un libertario, contrario a tutti i partiti dello spettro politico, a tutti i governi, a tutte le religioni, così come alla guerra e alle restrizioni tipiche dei reazionari sulla libertà di scelta.

In generale, è però abbastanza vero che posizioni di destra trovano oggi più terreno fertile tra i metallari (artisti e fan) per una serie di questioni culturali. Se da un lato ci sono la ribellione e l’anticonformismo, dall’altro c’è la violenza, che di sicuro non è estranea al radicalismo di sinistra, ma può diventare problematica quando fa da sfondo alla creazione di contenuti musicali. È difficile conciliare massacri, torture e stupri con le lotte per l’inclusione sociale, o contro le discriminazioni di genere. Il metal è anche accusato di sessismo e non a torto, visto quello che hanno dovuto subire nella loro carriera gruppi femminili come le brasiliane Nervosa, dalla sottovalutazione a priori del loro talento, agli insulti veri e propri. Il metal è sempre stato molto maschile, nonostante grandi presenze femminili come Wendy O’ Williams, Girlschool e altre star. Non parliamo poi del politically correct: come si concilia il rispetto per le varie identità, con il rifiuto del conformismo che lo stesso concetto sembra implicare? Mi è capitato di sentire testi orrendamente offensivi, ma comunque “belli” nel loro contesto, e testi brutti e fuori posto, perché parlavano di rispettare tutti e non odiare nessuno… non odiare – nel metal?! Suvvia, signori, un po’ di contegno. Non si entra in tribunale in bermuda, non si va in pizzeria con lo smoking, non si fanno canzoni metal sull’amore fraterno e universale. Semmai, si urla e si growla augurando lo sventramento e l’impiccagione con gli intestini a chi picchia le donne e saluta col braccio teso. Non mi pare difficile da capire.

Io credo che ogni caso vada valutato singolarmente, come quando Phil Anselmo fece il saluto romano gridando “white power!” alla fine di un’esibizione. Fu un gesto infelice, ma in quel caso tutti gli diedero addosso senza fermarsi un momento a capire che cosa fosse successo. Me compreso. Mi sembrò solo la conferma di un sospetto che avevo da tempo, vista la miriade di preconcetti che nutrivo nei suoi confronti: è texano, è un debosciato, sembra un neonazista, già era stato criticato per alcune sue affermazioni politicamente scorrette, pronto, con questa uscita ha fatto “coming out”. Le sue spiegazioni claudicanti e le sue scuse, in verità piuttosto patetiche, non risolsero la situazione; pensai che se non era nazista, era almeno un cretino che non pensava alle conseguenze, il quale, pur sapendo di fare una stronzata, la fa lo stesso. Poi, tornando sulla questione in un’intervista alla radio, ha parlato con il cuore, e mi ha fatto ritornare sui miei passi: ha dimostrato di essere una persona molto più profonda di quanto potesse sembrare e anche molto onesta e sincera, anche se poco accorta. Per questo, anche io gli devo le mie scuse.

In zona black metal le fascistonate sono invece molto più consuete. In ogni caso, pur apprezzando abbastanza il black metal come genere e pur vedendo una affinità con alcune sue visioni (la misantropia e il fascino del Male), mi rendo conto che:

  1. la versione scandinava del genere è in larga misura legata a questioni di chiusura culturale e recupero di un’identità neopagana, che lo si voglia o no. Non tutti gli artisti la pensano così (si veda Fenriz, che pure non aveva lesinato insulti antisemiti in passato, o altri gruppi neutri), ma molti di loro sono reazionari;
  2. se bisogna legare un messaggio politico a testi che esaltano violenze, torture, massacri, guerre e stupri, io preferisco che sia il nazismo anziché il comunismo (sebbene Euronymous si dichiarasse, in un senso strano e oscuro, un comunista anche lui);
  3. il modo di intendere Satana e di contrapporlo a Dio e a Cristo, in realtà è la conferma della visione cristiana del diavolo. Incarnazione e simbolo del “male”, è un mostro di perversione, corruzione e orrore: esattamente la descrizione cristiana dell’angelo caduto (beh, senza la parte della seduzione). Questo può andar bene per gli adolescenti, forse, ma per me il valore simbolico del satanismo è tutt’altro.

Ma non è tutto fascio quel che è nero (e il nero è decisamente un colore metallaro). Oltre a questo campo destrorso, esistono anche gruppi metal impegnati politicamente a sinistra, come i Napalm Death o anche Max Cavalera, oppure gruppi che ci tengono a mettere i puntini sulle “i” se vengono accusati di essere nazisti, come i Rammstein. L’anarchia metallara è, come ogni altra visione anarchica, in bilico sul concetto di libertà: di esprimersi senza remore, così come di focalizzarsi su ciò che la comprime, che può essere il fanatismo religioso, ma anche un conformismo progressista sul linguaggio; un autoritarismo repressivo, così come una necessità di rinunciare a qualcosa per il bene collettivo. Insomma, è la questione dell’individuo nella massa, per questo anche sul fronte “capitalistico” ci sarebbero problemi. Per quanto il sistema economico sia foriero di conformismi, frustrazioni e ingiustizie, è un fatto che tutti gli artisti abbiano interessi nell’industria musicale, che è anzitutto promozione e vendita, anche se il metal non è commerciale come il pop (non del tutto, almeno, sebbene ora sia molto più mainstream che negli anni Ottanta). La libertà economica non viene quasi mai messa in discussione, perché rischia di essere un controsenso. L’individualismo conta: l’anticonformismo sbandierato poggia su un’idea di ribellione individuale, prima che collettiva, perché nella superficialità delle visioni metallare il collettivo è necessariamente conformistico. Non hanno tutti i torti, ma se c’è un’etichetta politica che meglio si attaglia a una larga maggioranza di metallari, tra artisti e fan, può essere quella di “anarchici individualisti“. Non dei bakuninisti, direi, nonostante qualche punto di contatto su determinate questioni. Il che non impedisce di auto-conformarsi nelle varie legioni dei fan-club, che molti artisti alimentano, ma questo rientra nella questione degli eletti. E più si radicalizzano le posizioni, più si scivola verso l’estrema destra, dove nessuno sta a bacchettarti e a controllarti per ogni parola non soppesata (a meno che tu non dica “cose di sinistra”, allora ti romperanno le palle pure lì).

Intendo dire che la libertà, per quanto scandita in modi diversi, è la base cui tutti noi aspiriamo, per quanto ognuno la declini in maniera diversa. Libertà individuale, sia nel senso di anticonformismo, sia nel senso di lavoro per eliminare gli impedimenti materiali a essa; che possono essere la tassazione statale, per alcuni, o il giogo del capitale, per altri. Un equilibrio difficile, che non può essere risolto con un invididualismo sistematico in cui ciò che va bene per l’individuo, va bene per la collettività e viceversa; non funziona così, in quanto le due entità hanno bisogni diversi.

Per questo i discorsi sulla destrosità del Metal che fioccano negli ultimi anni sono pericolosi, perché mancano di contesto e di profondità, non riconoscono i gruppi e gli artisti che nulla hanno a che vedere col neonazismo, dividendo la realtà complessa di una scena variegata in pezzi più piccoli e netti, ben identificabili e incasellabili. Io penso che ogni cosa, in realtà, abbia elementi di destra e di sinistra, e il Metal non fa eccezione. Quel che accomuna può anche dividere, ma non si può realmente espandere a un’intera scena musicale un’etichetta di parte. Così come non si può, non si deve, farlo con il cinema di genere (sia esso horror, poliziesco, d’azione ecc.), o la letteratura, o altre espressioni artistiche, perché la critica-contro alimenta sempre una separazione, che finisce col dare più spazio a elementi destrorsi, regalando interi generi e forme alla visione conservatrice del mondo. Non possiamo regalare semplicemente interi spazi culturali ai neofascisti, che non vedono l’ora di appropriarsene; dobbiamo invece lasciar perdere quelle etichettature da anni Settanta e riconoscere che la cultura è un campo di costruzione collettiva di valori e interpretazioni. Altrimenti rischiamo di sclerotizzare e appiattire la nostra stessa creatività e autonomia di pensiero. Io sono “libero” anche grazie al Metal, sono di sinistra anche grazie al Metal, e sempre grazie a esso non ascolto solo Metal. Perciò non regaliamolo, non gettiamolo via con le solite etichette, perché, come diceva Gramsci, “creare una nuova cultura non significa solo fare individualmente delle scoperte originali: significa anche e principalmente diffondere criticamente delle verità già scoperte, “socializzarle” per così dire e pertanto farle diventare base di azioni vitali, elemento di coordinamento e di ordine intellettuale e morale”.

[prima o poi dovrò dire la mia anche sulle virtù dell’egoismo, visto da estrema sinistra]

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E ora, il ripescaggio

Non è la prima volta che rifletto su questi temi. Ne approfitto dunque per ripescare un articolo del 2005, primo anno del mio vecchio blog, e riportarlo qui per completezza. Ma stavolta rivedendolo un po’, perché il modo in cui scrivevo allora mi irrita profondamente. Non voglio snaturarlo, solo renderlo un po’ più leggibile (e digeribile).

[Marzo 2005] Nazismo e ribellione

Sto ascoltando I Don’t Believe A Word dei Motörhead, una delle rare canzoni “lente”, una sorta di ballad, struggente e infernale come loro solito; una cosa che un po’ mi dà fastidio di Lemmy, bassista/cantante della band che lui stesso fondò nientemeno che 30 anni fa, è che subisce un po’ troppo il fascino della Germania nazista: lui non è nazista, si è più volte dichiarato anarchico, però il fascino lo sente e ogni tanto suscita controversi commenti su ciò che gli piace. In verità sarei l’ultimo a potergli dire qualcosa, ma resta il fatto che quando uno dei tuoi idoli mostra una certa “simpatia” per cose che tu odii e disprezzi dal più profondo del cuore, beh… la cosa non può lasciarti del tutto indifferente.

Voglio parlare un po’ di questa strana vicinanza del nazismo ai sentimenti ribelli dei “contestatori” inglesi (dico di loro perché ci sono diversi esempi, ma è da intendersi in generale), che mi confonde alquanto. E naturalmente parto dai Motörhead, perché sono il mio gruppo preferito e significano molto per me.

Con loro la situazione è particolare: Lemmy ha spesso fatto sfoggio di svastiche quando era giovane (intendiamo gli anni ’70), mettendone una persino sul simbolo della band, lo “Snaggletooth”, che ne aveva una piccola su uno degli spuntoni dell’elmo; poi da un album all’altro sparì, e adesso è difficile trovare un’immagine ufficiale che la riporti. La tolse, a quanto pare, lo stesso Lemmy, perché aveva un valore provocatorio che col passare del tempo aveva perso senso, e rimaneva solo la possibilità di essere fraintesi e di offendere qualcuno senza volerlo (davvero).

Lemmy è poi un collezionista di cimeli del nazismo, e ne ha anche di costosi; ama molto la Germania, che non perde occasione di visitare nei luoghi storici, ma non nei campi di concentramento, perché “si deve tracciare un confine tra ciò che ti piace collezionare e ciò che loro hanno effettivamente fatto“. Dice che per lui la Seconda Guerra Mondiale non è storia antica, essendo nato nel dicembre del 1945 (…), quando era appena terminata: nella sua visione delle cose lui non vede tutti i buoni da una parte e i cattivi dall’altra, poiché ognuno ha combattuto ed è morto per ciò in cui credeva, o è stato costretto dai suoi padroni a farlo, da entrambe le parti. Oggi la situazione non è cambiata, perché la gente non impara dal passato e così ci sono ancora guerre, ingiustizie e violenze; quindi non si tratta solo di nazismo, è la razza umana a vivere di orrori (almeno ho capito che intende una cosa del genere, dalle varie interviste che ho letto).

Aggiunge che mentre Hitler, Roosevelt, Chamberlain e Stalin sono tutti della stessa risma di groveling bastards, una certa ammirazione la prova invece per Hermann Göring, il quale al processo di Norimberga si assunse (pare) tutte le sue responsabilità e non cercò alcuna scusa per ciò che aveva fatto, arrivando a suicidarsi prima che venisse eseguita la sua sentenza di morte per impiccagione, come spregio per i giudici che gli avevano negato la fucilazione.

Poi, Lemmy ha collaborato con artisti di colore (quindi non è razzista) e rispondendo ad un fan evidentemente incazzato per la prevalenza di concerti in Giappone, gli ha risposto “Puttane con gli occhi a mandorla? Sei razzista? Se lo sei, sei un idiota, ed è finito il tempo di essere idioti” [sul vecchio sito ufficiale, poi sostituito]. E nel video di Sacrifice ha inserito spezzoni di film in cui carri armati alleati schiacciavano le foto di Hitler.

Insomma, sembra che la sua passione per la Seconda Guerra Mondiale e il Terzo Reich non siano legate a condivisioni di idee politiche, ma a un fascino per qualcosa di aborrito dalla società intera, messo all’indice e stigmatizzato.

E qui mi tornano in mente i Sex Pistols, che si presentavano come anarchici nichilisti indossando svastiche naziste e ritratti di Karl Marx con grande disinvoltura. Sid Vicious si è visto spesso con una maglietta che simulava una bandiera nazista; allora, qual è il punto?

La prima cosa che mi viene in mente è provocazione: maligna, dura, che non possa lasciare indifferente nessuno, perché deve arrivare come un pugno in un occhio. Cosa meglio del simbolo nazista? Soprattutto in una società come quella inglese, che come nazione aveva dapprima avuto fin troppi contatti con il Terzo Reich, per poi combatterlo strenuamente, per un certo periodo da sola.

Lemmy, e anche di più Sid, mi fanno ricordare di Charles Bukowski, grande scrittore maledetto, altro mio idolo: un campione di nichilismo, contrario a qualsiasi forma di potere, ma che da giovane (anni ’40) aveva frequentato gruppi di ragazzi che seguivano il nazismo. Lo faceva perché, da un lato, alle riunioni c’era sempre da bere gratis, dall’altro perché essere nazista era un modo per ribellarsi a tutto e tutti, mentre la gente odiava il nazismo perché lo combatteva in guerra.

Credo sia infine questa la chiave: il nazismo è ribellione per quei giovani che si sentono schiacciati dalla società e non credono in niente e in nessuno. Quindi in verità non sono nazisti, o naziskin, o neonazisti, perché altrimenti crederebbero in una razza superiore, in un modello sociale infallibile, in regole ferree e strutture gerarchiche solidissime, e in tutte le altre stronzate di questo genere; ma il fascino di quel Terzo Reich visto come ciò che dà fastidio a tutti, come ciò che la società mette al bando e quindi come la “terra promessa” di chi disprezza questa stessa società e vuole essere spina nel fianco della sua ipocrisia, è un fascino che può prendere e non mollare più.

Io non biasimo Lemmy per le sue scelte, che sono anche “coraggiose”, per tutti i problemi che possono dare. Non lo biasimo perché ha semplicemente l’onestà di non piegarsi per forza al perbenismo ipocrita che è presente ovunque. È come se dicesse “non lo sono, ma mi affascina; problemi?“. Non cerca giustificazioni né scuse, non rinuncia al suo essere per piacere agli altri o assolversi di fronte all’opinione pubblica, e forse per questo ammira quel porco di Göring. Sono gli atteggiamenti in sé stessi a piacergli, atteggiamenti in un certo qual modo anarchici. Al di là del bene e del male, per usare un’espressione comprensibile a tutti, anche io potrei “apprezzare” la scelta di un Göring, laddove gli altri gerarchi hanno mantenuto linee di difesa a scarica barile [“ho solo obbedito agli ordini”, una linea di totale deresponsabilizzazione], in un processo che comunque, anche condividendone l’indispensabilità, fu scontato nel suo esito. Perché mentire, allora? Tirate fuori le palle e fatevi impiccare per quel che avete fatto.

E poi, non è che non lo capisca del tutto. Per anni io ho ammirato visceralmente Stalin e, ancora oggi (che non lo considero più come un grande maestro), quando vedo il suo volto non posso fare a meno di provare un misto di rabbia e adorazione. Sono attratto anche io dai cimeli storici, anche se ovviamente preferisco quelli “rossi”. Sinceramente, mi danno persino un po’ fastidio quei film di guerra con i nemici presentati come puri mostri, anche quando siano nazisti, perché non mi piacciono le demonizzazioni, nemmeno di un nemico così grande: la demonizzazione è veleno per le menti libere. Questo, nonostante io per primo mi diverta a massacrarli uno dopo l’altro, lasciando i cadaveri stesi ovunque ad imputridire… in Wolfenstein!

A presto per la quarta parte.


Memorie dal Metallo – II

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Il “culto” del Metal. Settarismo e inquisizione

Il Metal è identità, uno stile di vita riconoscibile, che può essere gioiosamente libero, anarchico nel senso più umano del termine, espressione massima del ROCK! …ma può anche ricadere nel suo opposto.

Misantropia, chiusura, gruppo di “eletti”, disprezzo verso tutto ciò che non è metal… Anch’io ho sguazzato nel ghetto dei metallari, per un po’. Non è una situazione incomprensibile: quando ti senti escluso da una società che ti sembra sorda, ipocrita e stupida, cui si aggiunge una situazione adolescenziale non proprio gradevole con la difficoltà costante nei rapporti umani, è forse naturale cercare agio e protezione in un micro-mondo di gente che sa il fatto suo (o così pare). Far parte, cioè, di un gruppo di “eletti”, in possesso di qualcosa di speciale che “gli altri” non capiscono e non posso capire, a costo di guardarti in modo strano, perché tu possa riderne e sentirti “migliore”, più forte, più figo, superiore, perché quella cosa speciale è per pochi e tu sei tra quei pochi. Il metal è stato, da questo punto di vista, un idolo più che adeguato: musica non commerciale, nemmeno nella sua versione più orecchiabile, con testi profondi, melodie e ritmi passionali, la volontà di andare oltre, di superare confini, regole, limiti, guardare e smascherare la realtà, urlare la verità al mondo, metterlo di fronte alla sua assurdità, distruggere tutto e, magari, ricreare tutto. E più il mondo ti fa schifo, più odi te stesso e ciò che ti circonda, più odi gli altri, più il metal ti dà corda, pane per i tuoi denti, vie da percorrere, dalla desolazione alla rabbia più nera. Ma ti dà anche il sesso, la forza, la potenza, la visione del mondo e dell’umanità. Ti dà tutto ciò che non hai e che, con tutta probabilità, continuerà a mancarti ancora per parecchio tempo. [L’adolescenza è un periodo di fragilità, chi è più sensibile è anche più facile da ferire, e il metal offre una corazza per proteggere un cuore spesso troppo tenero].

Innegabile è poi il fascino, a metà tra il punk e Fight club, dell’essere feccia, eterni sconfitti, umani di serie B, e proprio per questo senza niente da perdere, liberi dalle pastoie di ipocrisia e opportunismo di quelli di serie A, insomma anti-eroi che mandano tutti a fare in culo, pisciano su ogni cosa e ridono mentre il mondo brucia.

Tutto questo si trasforma in una sottocultura che è di per sé esclusiva, chiusa e in certo modo arrogante, come tutte le tendenze misantropiche. Così i metallari si auto-ghettizzano, contribuiscono ad auto-escludersi dalla società, trovando e indicando i loro nemici: una volta erano innanzitutto i discotecari, con quella musica di merda e il loro modo stronzo di interagire (tra l’altro gente maleducata, che non ci usava neanche la cortesia di ricambiare il nostro odio, pensando solo a impasticcarsi, fare sesso senza preservativo e schiantarsi con l’auto alle tre di notte); poi tutto ciò che era commerciale, superficiale e aperto al grande pubblico; oggi, direi qualsiasi cosa passi attraverso internet senza essere metal. Questo genera un rifiuto spesso irrazionale di ogni altra espressione umana, arrivando a ritorcersi contro il metal stesso: sperimentazioni, deviazioni, cambi di rotta o di livello qualitativo, sono tutte cose che servono a stilare liste di proscrizione e di condanna degli artisti che si ascoltano, fino ad arrivare al culto del “vero” metal e alla conseguente Santa Inquisizione che decide cosa è bello e va bene e può esistere, e cosa no e deve morire soffrendo e con esso anche tu, che non ti adegui al generale giudizio dei “veri” metallari. Questo settarismo, questa roba da duri e puri, che in certi momenti raggiunge vette (o profondità) dove la contraddizione e il senso del ridicolo cessano di esistere, ha cominciato ben presto a farmi schifo, a darmi il voltastomaco, a sembrarmi la negazione del metal e di quel che ci avevo trovato di bello e di buono. Me ne sono allontanato, non senza qualche cicatrice, per (ri)aprirmi al mondo e, soprattutto, a me stesso, liberandomi da catene auto-imposte e perfettamente inutili (cosa che mi era successa anche sul fronte politico-filosofico).

Ah, quanto feci bene! Oggi mi capita di leggere scritti di metallari quarantenni che sono rimasti col cuore e col cervello di quindicenni mugugnanti. Ok sul cuore (che spinge a coltivare la passione), ma sul cervello, per la ragione di Lucifero, che crescano! Si deve venire a patti col mondo e con se stessi, evolversi, uscire dal ghetto. Perché altrimenti, se mi passate i termini per rendere l’idea, il ghetto passa da essere quello ebraico (luogo di esclusione per pregiudizio culturale) a quello statunitense (nel senso di periferia degradata in mano ai criminali) e i metallari finiscono col comportarsi da negri con la pistola. E non lo dico in senso razzista, ma proprio come denuncia di un atteggiamento esemplificato nei film e nelle serie tv americane, tipo quei posti di merda dove tutto è definito in base alla violenza e alla forza, dove se non dimostri di avere il fegato di sparare a chi ti guarda storto, ma soprattutto a chi entra nel tuo territorio senza permesso, sei un mezz’uomo da prendere a calci e bastonate. Intendiamoci, questo è un atteggiamento comune a tutte le sottoculture e controculture, a iniziare dal punk; oggi si dice poser (o anche fighetto che s’atteggia), una volta si diceva addirittura impostore, ma la sostanza è la stessa, la logica del “noi contro tutti”, e chi non ci sta o gioca, o mente. Tra i quattordici e i vent’anni (ma siamo in Italia, diciamo venticinque) va benissimo, fa parte della crescita, se non è la musica sarà qualcos’altro; ma dopo i trenta è ridicolo, dopo i quaranta è contro natura, dopo i cinquanta è patologico.

In realtà può esserlo anche a vent’anni, se pensiamo ad alcuni tra i fondatori del black metal norvegese: ragazzi disadattati che si sono presi talmente sul serio dall’arrivare a suicidarsi, bruciare chiese, uccidere altra gente e infine uccidersi tra loro. Non tutti, è ovvio, ma i più famosi sì. Il black metal è a suo modo affascinante, riesce a parlare a quella parte più oscura e primordiale che sembra provare solo odio, puro e incondizionato, e rabbia; ma quella parte, quel “mostro”, quella cosa, fa parte di noi e prima o poi dobbiamo scenderci a patti. Io, un giorno, mi sono seduto con esso, nel suo angolo buio e umido, e gli ho parlato. Ho ascoltato cosa aveva da dire, poi ho risposto “tu sei me, non qualcos’altro; se ti lascio libero di esprimerti, smetterai di farmi pressione e camminerai al mio fianco, solo un passo indietro?”. Esso ha accettato, e da allora mi sento molto meglio, perché quel che dice è quel che sento. E il black metal non mi interessa più, se non come musica pura.

D’altro canto, parlando ancora dei norvegesi, il recente caso del film Lords of Chaos, mette alcuni altri punti in questione: il film (che ancora non ho visto) è stato odiato da artisti e fan del BM, perché non rispetta la storia e i fatti, inventa, distorce, dà una visione molto opinabile dei protagonisti (che non sono nemmeno tutti, tra l’altro interpretati da attori non norvegesi) e per di più non dà importanza alla musica. Ma qui non è solo un problema di settarismo. La spettacolarizzazione tipica di un film, per di più una produzione americana, è di per sé una semplificazione, una rappresentazione che cerca di captare l’interesse del grande pubblico, parlando di un fenomeno che doveva essere e rimanere di nicchia (meglio di me ne parla questo video qui). Per questo ribadisco, in ogni caso, che non è incomprensibile. A chi davvero può far piacere che quel piccolo ambiente in cui si sente al sicuro, venga aperto a tutti e invaso da persone che non ne sanno nulla e non gliene frega nulla di capirlo? È come il turismo nei piccoli centri o nelle isolette, dove per secoli si è vissuto in un modo e poi, a un tratto, c’è un’orda di gente sconosciuta, spesso maleducata, che arriva, mangia, sporca, fa rumore e se ne va lasciando spazzatura ovunque. Qui non hanno mica tutti i torti, quelli che si lamentano. Il problema però è passare da questo alla chiusura completa nei confronti di qualsiasi cosa tenti di interrogarsi dall’esterno sul metal, e più in generale difendere una cosa che non si dovrebbe prendere sul serio oltre certi limiti.

Per concludere questa parte, devo aggiungere che, a mio parere, la ricerca dell’identità è solo inizialmente legata ai simboli esteriori: quelli sono un rafforzativo che costruisce l’immagine riflessa di noi stessi, in cui ci sentiamo a nostro agio; ma la vera personalità si forma quando quei simboli vengono interiorizzati e restano forti e vitali, strutturati nella nostra unità psicofisica, al di là di come ci mostriamo esternamente. Io resto metallaro anche senza chiodo e jeans, perché il Metal mi dà ancora l’energia, e con questa coltivo il mio personale orticello di anarchia. Anche nei confronti della musica stessa.

A presto per la terza parte.


Memorie dal Metallo – I

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Il Metal ed io, una relazione lunga e complicata che dura da trent’anni, all’incirca. Dopo aver perso i Motörhead e aver riscoperto i Venom, ho iniziato a frequentare vari siti su heavy metal e hard rock, webzine che offrono recensioni, opinioni, notizie ecc. (alcuni dei quali ho inserito qui, tra i Siti interessanti), recuperando un contatto che avevo perso da diversi anni. E sono tornate alla mia attenzione alcune questioni quasi dimenticate, su cui forse vale la pena di tornare a interrogarsi. Ora, non è che mi metta a fare una “filosofia del metal”; intendo semmai vomitare una valanga di ricordi, considerazioni, consigli d’ascolto, vaffanculi vari, che cuciti insieme dovrebbero dare un quadro generale del mio rapporto col metal. Iniziamo dalle basi – com’è che ho scoperto il genere? Che rapporto ho avuto e ancora ho con esso? Poi, metallo e politica, provocazioni e giustificazioni, incoerenze e stati emozionali, persino un ripescaggio dal vecchio blog, insomma un articolo lunghissimo che non ricordo quando ho iniziato e non so quando ho finito (probabilmente, non poco fa). Ma non lo infilerò tutto intero, perché è davvero molto lungo e grosso; perciò lo converto in una serie numerata, così da riempire meglio il vuoto di questi ultimi mesi e dei prossimi. Intanto, comunque, vi lascio pure il tag discografia.

Sommario

  • Io metallaro
  • Metal e stile
  • La Via del Metal Estremo

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Io metallaro

Mi avvicinai al rock tra i quattordici e i quindici anni, come un po’ tutti, credo. Prima non avevo gusti chiari, mi piacevano Louis Armstrong e Sade, alcune arie classiche da Il Barbiere di Siviglia e I Pagliacci, ero “eclettico”, curioso, partivo dai dischi dei miei genitori e mi allargavo grazie ai film, che mi hanno fatto scoprire tanti artisti e di cui ho conservato l’amore per le colonne sonore originali, come quelle di Basil Poledouris (Conan The Barbarian, Robocop), Alan Silvestri (Predator) o Dennis Dreith (The Punisher).

Poi un giorno, da amante dei videogiochi, mi imbattei nella versione per Neo-Geo CD di London March del personaggio Billy Kane (Fatal Fury Special), che mi sconvolse il cervello: veloce, sporca, aggressiva, piena di energia. A quell’epoca ricordavo vagamente di aver visto un gruppo inglese con uno zombie come simbolo, che doveva fare una musica simile; così andai al negozio di dischi e chiesi informazioni, scoprendo il mio primo gruppo heavy metal: gli Iron Maiden. Sebbene si trattasse della versione di Best of the Beast i cui primi brani erano tratti, purtroppo, dai mediocri dischi con Blaze Bayley alla voce – al quale comunque auguro il meglio – dopo un primo impatto piuttosto deludente (Virus, come si fa ad aprire un best of degli IM con Virus?) mi ritrovai ad ascoltare perle come The Number of the Beast, Fear of the Dark, Aces High, Bring Your Daughter to the Slaughter, Run to the Hills, Be Quick or Be Dead, e me ne innamorai.

A questo si aggiunse la visione di Wayne’s World (da noi Fusi di testa), grazie al quale conobbi il mio secondo grande amore, Alice Cooper, che tra Feed My Frankenstein, Poison e classici come Freedom, Eighteen e School’s Out mi tenne compagnia in innumerevoli momenti della mia vita (iniziai con il live A Fistful of Alice e collezionai poi gran parte della discografia, prima volta che facevo una cosa del genere).

Ma volevo di più. Tentai con i Led Zeppelin e i Rolling Stones, però ancora non avevo le idee chiare. Un giorno tornai al negozio di dischi con la ferma intenzione di trovare quel che cercavo: musica sporca e veloce, velocissima, oppure lenta ma tosta, tipo quella da motociclisti incazzati (che, anche grazie a film come Dal tramonto all’alba, mi porterà ai ZZ Top). E lui, il discobolo, che sapeva il fatto suo, mi fece conoscere gli Dei che ancora oggi venero, i Motörhead. Da lì, si aprì il mondo dell’heavy metal e dell’hard rock (a cominciare dai Black Sabbath e Ozzy da solista), conobbi il punk e le sue varianti (tra i miei preferiti: Sex Pistols, Dead Kennedys, Exploited e Discharge), un mucchio di gruppi che poi seppi far parte della NWOBHM, per poi passare agli americani, i Metallica innanzitutto, i Fear Factory, i Machine Head, ma anche i Manowar (che misi velocemente da parte), per arrivare gradualmente al metal estremo, grazie ai Pantera e ai Sepultura.

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Metal e stile

Parallelamente coltivavo anche altri generi, ma questa è un’altra storia. Ne accennerò più tardi. Ora mi concentro invece su un argomento collegato, ossia lo stile (di vita, di vestiario, di atteggiamento). Il problema fondamentale dello stile legato a una sottocultura è che dovrebbe seguire dei canoni, ossia la moda, senza però diventare una pura omologazione impersonale (questo in fondo vale per “lo stile” in generale); rendersi cioè riconoscibili in quanto appartenenti a un gruppo, ma senza fare di tutto per sembrarlo apposta. Perché una cosa che l’heavy metal rifiuterebbe è proprio la moda, forse senza l’aggressività del punk, ma con lo stesso disprezzo per quanto era considerato “normale”. D’altro canto, se un metallaro è riconoscibile, è perché indossa quel minimo sindacale che comprende maglietta di una rock band, jeans strappati al ginocchio, giubbotto di pelle possibilmente modello chiodo (o, in alternativa, il gilet di jeans con le pezze di rock band), capelli lunghi e qualche accessorio (borchie, stivali, catene, negli anni ’90 anche una camicia di flanella mutuata dal grunge).

Io ero in una sorta di limbo: passavo il guaio di non trovare granché di metallico da indossare, anche perché l’unico chiodo che trovai mi andava bene di spalle, ma non si chiudeva sulla panza in costante aumento (praticare sport? Se lo potevano ficcare nel colon); d’altro canto, avevo anche altre priorità di immagine, più politiche, che cercavo di mediare. Avevo qualche chicca, come un ciondolo “satanico” e un anello che riproduceva quello di Natural Born Killers, oltre a un bracciale di cuoio borchiato, in verità piuttosto scomodo. Ma, soprattutto, non potevo farmi crescere i capelli, dato che invece di crescere in lunghezza tendono a crescere in volume, col risultato di avere un casco di capelli a metà tra un parruccone seicentesco e una capigliatura da hair metal tagliata male, peraltro tendente a sporcarsi subito, assumendo così un aspetto animalesco. Ancora oggi mi ritrovo ad andare dal barbiere per eliminare il mostruoso mullet che mi viene naturale.

Pazienza. Ma lo stile di vita? Beh, dipende da come la si pensa in merito. Oggi posso dire che non ero affatto ribelle come tentavo di essere. Non ero sbandato, non mi ubriacavo mai, né ho mai preso il vizio del fumo, pur fumando abbastanza. Se mi ubriacavo, diventavo più tipo strafatto di marijuana, molle e ridacchiante, che altro (poi però vomitavo come un vero punk). Nemmeno con la musica riuscii a farmi degli amici, e così ascoltavo il metal a casa – e con le cuffie, per non dar fastidio! A proposito, ricordo di quando finalmente mi comprai il lettore cd portatile, che all’epoca sembrava futuristico, dati gli apparecchi ancora ingombranti e pesanti che usavano i miei; potevo ascoltare tutto il metal smodato che volevo, dove volevo, senza sentire lamentele. Libertà, o almeno sembrava tale. Non andavo in cerca di guai e mi tenevo ben lontano da gente aggressiva e stupida, non andavo in giro a far casino e le poche volte in cui ho provato a scandalizzare qualcuno, ho fatto piuttosto la figura dello scemo. Direi che la voglia di ribellione, seppur forte contro l’ipocrisia e il conformismo da cui mi sentivo circondato, si risolveva in un atteggiamento gentilmente misantropico, in cui avrei voluto davvero fregarmene di quello che pensavano gli altri, ma alla fin fine ero troppo educato per giocare a fare il duro, limitandomi a parlar male un po’ di tutto e a esser fiero di non far parte della massa pecoroide (fosse vero o meno, di certo ne ero convinto).

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La Via del Metal Estremo

Il nome dei Sepultura girava parecchio, ma sembrava roba inascoltabile, così come tutti quei gruppi di cui era impossibile leggere il nome guardando il logo. C’era tutta questa zona inesplorata del metal che sembrava fatta solo di rumore e urla, totalmente priva di melodia, nota soprattutto come “death metal”, che io credevo fosse stata inventata appunto dai Death, e che conoscevo più che altro attraverso i video di Mtv e TMC2 (per esempio i Cannibal Corpse, o gli At The Gates) e i film (tipo i Napalm Death). Aveva un certo fascino, ma era eccessiva, nemmeno io la sopportavo a lungo, così come i “normali” non sopportavano a lungo nemmeno Alice Cooper. Tuttavia, la prima canzone che ascoltai dei Sepultura fu Ratamahatta, grazie appunto al video, e non era certo una loro canzone tipica; in effetti fu proprio la particolarità di questo brano a farmi interessare, perché non era “inascoltabile”. Comprai il disco, e il mix di suoni estremi ed elementi tribali fu così interessante che continuai con Chaos A.D., ancora meglio, e poi Arise. Questo invece fu troppo per me. Lo accantonai, eppure… Eppure, in seguito, fu proprio la title track a tornarmi in mente più spesso. Iniziai a prenderci gusto con questi rumori apparentemente insensati, così un giorno tornai dal discobolo e gli chiesi qualcosa di veramente pesante. Lui fece esplodere il negozio con The Great Southern Trendkill dei Pantera. E fece esplodere anche me, che poi mi dedicai a collezionare anche i loro dischi.

Da lì si sono aperte le porte dell’estremità. Il discobolo mi proponeva (oh, era un appassionato e si vedeva) ascolti di ogni tipo, per cui arrivai a conoscere anche quelle robe assurde come il grind, il brutal e altre cosette inascoltabili (per me, all’epoca). Certo, questi generi li ho solo sfiorati, perché il primo disco dei Napalm Death, ad esempio, lo ascoltai in negozio e lì lo lasciai; anche con il black metal non sentivo grande attrazione, perché il diavolo e l’inferno mi parevano degni di musica più atmosferica, mentre i dischi che trovavo erano più simili a un death metal strillato e raschiato. Ma era solo questione di tempo, naturalmente. A certi sapori ci si arriva solo con un po’ di resistenza, come il caffè senza zucchero, il peperoncino e le rape. O la cicoria, se preferite. O il chinotto. B-r-r-r, lo assaggiai la prima volta trent’anni fa e solo ieri ne ho sperimentato di nuovo il gusto amaro, quel tipo di amaro che ho sempre detestato. Indovinate un po’? Non mi è dispiaciuto. Anzi, ne sono diventato dipendente, tanto che potrei aprire un circolo di “chinottisti anonimi” per disintossicarmi (se lo volessi, e non lo voglio).

Per questo un giorno decisi di comprare un solo e unico disco estremissimo, di gusto orribile, tanto nella “musica” quanto nei testi e nella grafica, perché era talmente orrendo e vergognoso da non poterne fare a meno (ma solo quello e poi basta, che mica sono cretino): It Just Gets Worse degli Anal Cunt. Il più offensivo. Il più disgustoso. Il più inascoltabile. No, non ve lo “linko” nemmeno. E non lo ascolto da poco dopo averlo comprato. Ma è per questa sua orrida natura che è divertente e da collezione.

Sul black invece vi rimando ai Dark Funeral (i primi di cui comprai un disco) e soprattutto ai Darkthrone (che sono rapidamente diventati i miei preferiti). Ci misi un po’ per mandarli giù, ma poi fu una digestione tranquilla. Altri gruppi estremi, vediamo un po’, mi comprai i Benediction, gli Amon Amarth, gli Iced Earthgli Slayer ovviamente (preceduto però da un disco di cover)… l’ultimo disco estremo che comprai fu degli Incantation.

Un ricordo “tenero” lo conservo per i Six Feet Under: ero all’università, abitavo da solo, andavo in giro da solo, ero appena arrivato e giravo senza meta per capire dove comprare il cibo e affittare le vhs, ed ecco che in una stradina sperduta vedo una vetrina con cd, amplificatori e microfoni. Un negozietto di strumentazioni varie, che aveva anche una limitata offerta di album vari. In un mare (beh, un laghetto) di cd non-metal, spuntava, timido e solitario come me, l’unico album metal che avrei trovato da comprare per un paio d’anni: Maximum Violence di questi – per me – sconosciuti Six Feet Under. Lo comprai quasi a scatola chiusa (il tizio del negozio mi disse “questi fanno roba forte, metal proprio pesante, eh”) e non ebbi mai a pentirmene.

Comunque vorrei aggiungere che di solito sono proprio i gruppi estremi a tirar fuori canzoni melodicamente impressionanti, come Suicide Note pt. 1Love Is Dead, Opium, Season in the Abyss, Inquisition Symphony, Destroyed and Damned, The Call of Ktulu, T3rcemillennium e via dicendo. Parlando di questo, ne approfitto per citare un gruppo che non sapevo come inserire, che pure ha contribuito a farmene conoscere altri, e comunque è talmente particolare da non essere ben classificabile: gli Apocalyptica. Hanno iniziato facendo meravigliose cover al violoncello di brani metal, proponendo anche materiale originale, e almeno il secondo album (del cui singolo Harmageddon ho appena inserito il link) è un acquisto consigliatissimo.

A presto per la seconda parte.


La caduta rovinosa dei Robot

Rise
 
I robot! Assieme a pirati, ninja e dinosauri, sono i figaccioni delle fantasie e dell’escapismo, infantile e adulto. E lo sono anche perché c’è un intero genere letterario in cui hanno ruoli preponderanti: la fantascienza. Asimov ne è il gran maestro, e il fatto che io stia leggendo la trilogia dei Robot non deve farvi pensare che ne stia parlando apposta in questo articolo; anche se è vero. Cosa è un robot? La parola deriva dal ceco robota che significa “lavoro”; i robot sono i lavoratori del futuro, le macchine lavoratrici anzi, che si occuperanno (o si sarebbero occupati, se la tecnologia non stesse rendendo obsoleta, oramai, parecchia fantascienza di base) dei lavori più pesanti e ingrati, tipo estrarre minerali dagli asteroidi, gestire la trasmissione di energia attraverso gli spazi siderali, o giocare coi bambini.

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8th of May – Motörhead Day

I fan di tutto il mondo festeggiano il Motörhead Day, che quest’anno coincide (quasi) con il 40° anniversario della pubblicazione di Ace of Spades. Uscito l’8 novembre 1980, è probabilmente l’album più iconico, più classico e più conosciuto del gruppo, con cui hanno definitivamente messo in chiaro di essere «the loudest and the fastest band in the world», per citare, beh, chiunque li abbia ascoltati. Il video qui sopra è stato appena pubblicato sul canale ufficiale di YouTube ed è nuovo di zecca, ma io voglio aggiungere quello originale e almeno un paio di esecuzioni dal vivo. Infine, già che ci sono, lascio i link ai miei articoli sulla loro discografia, per chi ne avesse voglia. Viva i Motörhead!


Resurrezione

Secondo i Venom

Secondo Halford

Secondo i Fear Factory

Secondo Brian May

E ora una lettura da Giovanni, capitolo 25


I miei dischi dei Sepultura

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Se oggi sono un fan del metal estremo, lo devo a gruppi come i Sepultura e i Pantera. Credo che gran parte dei ragazzi degli anni Novanta, di quelli interessati al metal, debbano proprio a loro l’iniziazione alle forme più dure di un genere già duro di suo. Perché i loro nomi andavano per la maggiore e non si poteva evitare di accostarli ai Metallica, ai Motörhead o agli Slayer. All’epoca, però, io avevo ancora i miei limiti: una musica che sembrava solo fracasso e urla gutturali, come se il cantante avesse problemi di stomaco, beh, non mi pareva allettante. Per nulla.

La prima canzone che ascoltai dei Sepultura fu Ratamahatta, grazie al video che girava sui canali musicali dell’epoca (in particolare TMC2, chi se lo ricorda?), e non era certo una loro canzone tipica; in effetti fu proprio la particolarità di questo brano a farmi interessare, perché non era “inascoltabile”.

Comprai il disco, e il mix di suoni estremi ed elementi tribali fu così interessante che continuai con Chaos A.D., ancora meglio, e poi Arise. Questo invece fu troppo per me. Lo accantonai, eppure… Eppure, in seguito, fu proprio la title track a tornarmi in mente più spesso. Così continuai. Insomma, con i Sepultura ho fatto quasi un lavoro archeologico, andando a ritroso nella loro storia dagli album più orecchiabili a quelli più estremi. Perciò posso ben dire che mi abbiano condotto loro verso generi che prima snobbavo. (Con i Pantera, di cui parlerò in futuro, è avvenuta una cosa simile e contraria: volendo cose estreme, li ho conosciuti con The Great Southern Trendkill, per poi andare a ritroso e arrivare ai loro album meno estremi).

Bene, come procedere? In ordine cronologico o in ordine archeologico? Beh, in questo caso dire che va bene il secondo, per seguire lo stesso percorso che feci allora. Vamos detonar essa porra!

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