Archivi del mese: novembre 2020

L’ultimo samurai

Il 25 novembre 1970, Yukio Mishima, scrittore, artista marziale ed esteta giapponese, compì un gesto che per noi occidentali moderni è pressocché incomprensibile: il seppuku, altrimenti detto harakiri, ossia il suicidio rituale dei samurai. Lo fece dopo aver occupato il Ministero della difesa con alcuni membri della sua Tate no Kai (“associazione degli scudi”), un gruppo dalla forma paramilitare, per protesta contro ciò che lui riteneva essere l’umiliazione costante del Giappone dal dopoguerra. Le sue idee, espresse in numerosi romanzi e saggi, sono sostanzialmente quelle di un tradizionalista che vede nel mondo moderno una decadenza inaccettabile, cui contrapporre il culto degli antenati (fondamentale in Giappone) e la rivalutazione dell’etica guerriera, della figura spirituale dell’Imperatore e del nazionalismo. Idolo delle destre di ogni parte, fu comunque una figura complessa e affascinante, non così facile da incasellare, seppure chiaramente antimoderna. Essendo io attratto da diversi aspetti della cultura giapponese, da tempo ne ho acquistato diverse opere, anche se purtroppo ne ho letta finora solo una. Non posso definirmi un suo ammiratore, ma nei cinquant’anni dal suo seppuku, voglio comunque ricordarlo con il proclama che fece poco prima di suicidarsi. Una pagina di moderno romanticismo, oserei dire, magari non eccelsa, ma in piena sintonia con la sua opera d’arte definitiva, il suicidio dell’esteta.

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“La nostra Associazione degli Scudi è cresciuta grazie all’Esercito di difesa nazionale: l’Esercito di difesa nazionale è, per così dire, nostro padre e nostro fratello maggiore. Perché dunque lo ricompensiamo dei favori che ci ha elargito agendo con tanta ingratitudine? Negli anni trascorsi – quattro per me e tre per gli altri membri – siamo stati accolti nell’esercito e considerati quasi alla stregua di membri effettivi, siamo stati addestrati senza che ci fosse chiesta alcuna contropartita, e abbiamo appreso ad amare sinceramente l’esercito, a sognare «l’autentico Giappone» che ormai esiste solo nelle caserme, a conoscere lacrime virili, uno spettacolo insolito nel dopoguerra. Abbiamo versato insieme a voi il nostro sudore, correndo al vostro fianco per le pianure del Fuji e condividendo il vostro amore per la patria. Di questo non abbiamo il benché minimo dubbio. L’Esercito di difesa nazionale è stato il nostro paese natale, l’unico luogo di questo snervato Giappone moderno in cui si possa respirare un’atmosfera di ardimento. Incommensurabile è l’affetto di cui ci hanno onorato gli istruttori e tutti coloro che ci hanno addestrato. Perché dunque abbiamo osato intraprendere una simile impresa? Anche se potrà sembrare un’apologia, io dichiaro che l’amore per l’Esercito di difesa nazionale è il nostro movente.

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Congetture in libertà

Philosoraptor

Osservazioni e pensieri sorti in maniera spontanea, sotto la doccia, spolverando, al volante, fumando senza avere il cellulare in mano… tipo, su presunte origini storico-materialiste di alcuni usi e costumi, sulla natura dell’essere umano e dell’universo, sulle implicazioni etiche della prima colazione, sullo schifo che è diventato l’editor di WordPress con questa merda dei blocchi, ecc…. tutto sotto l’effige tutelare del Philosoraptor, meme patrono delle congetture più strambe su internet. NB – una nuova rubrica, insomma, da non prendere granché sul serio.

I / Il sangue nella magia religiosa. Dal sacrificio animale e umano, al mito del sangue nel paganesimo e nel cristianesimo, il sangue è considerato fonte di vita e di legame, con la terra e la comunità, portatore di tutte le caratteristiche individuali. Osservazioni basilari: se un essere perde sangue, muore; se il sangue impregna la terra, la concima. Il sangue è vita e la porta ovunque vada – è dunque prezioso e va preservato. Da questi dati osservabili  senza particolari conoscenze derivano il culto e il mito. Il sacrificio, in tutte le religioni che lo propongono, ha come scopo l’offrire il sangue alla divinità, perché porti in cambio la vita. Spargere il sangue sull’altare è la versione simbolica della carogna che perde sangue sulla terra e, in suo luogo, crescono piante rigogliose.

II / Sessualità e repressione. Questione di ordine pubblico: assecondare il desiderio porta ad avere figli; se non sono concepiti all’interno di relazioni codificate, sorgono conflitti e problemi. Necessità di controllo = imposizione di regole contro il sesso libero. Regole contro comportamenti destabilizzanti (religione in generale). Il peso si scarica innanzitutto sulla donna, “scrigno di vita e di lussuria” (cit.), in quanto considerata: 1) inferiore per natura, meno intelligente, meno attiva, meno importante; 2) detentrice della funzione riproduttiva, che la distingue e la caratterizza in toto; 3) debole, bisognosa di protezione, quindi di guida; 4) seducente, quindi pericolosa, inducendo l’uomo all’adulterio. L’uomo adultero è “vittima” della seduzione, ma al contempo causa dei problemi (scontri violenti con altri uomini) che destabilizzano la società codificata, cercando lui stesso di sedurre per ottenere i piacere sessuale. Soluzione: reprimere la sessualità. Per reprimerla bisogna condannarla come peccato, attribuendole “il male” come essenza, se non finalizzata alla riproduzione in situazioni codificate. Il potere, identificato nelle regole divine (avulse dall’imperfezione e dalla transitorietà umane), estende un controllo universale attraverso la soluzione del problema della sessualità.

III / La via della mano sinistra. In ambito magico e alchemico, esistono due “vie”, ispirate al dualismo solve et coagula, la via della mano destra e la via della mano sinistra (o anche la via umida e la via secca, a seconda dell’ambito specifico in cui si applicano). La prima è quella più lunga, difficile e impegnativa, ma sicura, che si basa sulla pratica spirituale, sulla conduzione di una vita moralmente retta (retto, diritto, dritto, destro), che può durare anni per arrivare al risultato. La seconda è quella rapida e facile, ma pericolosa, che tenta di arrivare al risultato attraverso arti e pratiche rischiose, come l’assunzione di sostanze e altre forzature spirituali e fisiche. Facendo un parallelo indebito e superficiale, considerando l’insieme delle pratiche di cura apparse nei secoli e nelle culture, ho pensato: e se le cosiddette “medicine alternative”, con olii essenziali, acque profumate, energie universali catalizzate ecc., fossero la via della mano destra, mentre la medicina vera e la scienza, con i farmaci e la chirurgia, fossero la via della mano sinistra?

IV / L’umanità non va mai contro natura. La tendenza alla consapevolezza delle nostre azioni, dal punto di vista della specie, ossia l’intenzionalità più o meno costante delle scelte, ci distingue dagli altri animali in quanto non seguiamo un istinto innato, bensì costruiamo ogni comportamento in base all’educazione, alle relazioni, al contesto, ai linguaggi, ai parametri culturali e via dicendo. La scienza è nata dalla razionalizzazione in modelli delle esperienze di trasformazione dell’ambiente in cui viviamo; la vita che portiamo avanti, sempre come specie, è inscindibile da questa operatività e persino la pretesa di viviere in armonia con la natura (intesa mitologicamente come Madre) è una scelta, non uno status. Fatto salvo il contesto in cui la vita è per forza di cose “naturale” (impossibilità di industrializzazione, agricoltura limitata ecc.), e dunque dove la scelta non c’è, ogni segno di civiltà si basa sulla trasformazione fisica e culturale. Il dibattito sulla contrapposizione tra vita naturale e scelte contro natura, da questioni di stili di vita (scelte artistiche, consumatorie, sessuali) a questioni mediche e interventive, per non dire economiche, si basa sulla equiparazione natura=norma, per cui tutto ciò che non è considerato naturale è contro natura, quindi necessariamente anormale. Ma perché l’essere umano è portato ad agire così spesso contro questa presunta normalità naturale? Per via della sua vera natura: la trasformazione dell’ambiente e di se stesso è la sua propria natura fondamentale, la conseguenza dell’evoluzione della sua struttura psico-fisica. La scelta è per noi una “possibilità obbligatoria”, dovuta al nostro cervello. Noi, pertanto, non possiamo agira mai, in alcun modo, contro natura, perché l’azione intenzionale è la nostra natura, anche quando ci reca un danno, o lo reca all’ambiente in cui viviamo e moriamo.

V / Esperienze paranormali. Vivere esperienze fuori dalla norma: vedere persone o cose che non ci sono, avvertire sensazioni strane, sperimentare l’assurdo. Può capitare a chiunque. Al di là della razionalizzazione, si tratta pur sempre di esperienze, avvenimenti il cui valore si può apprezzare nelle conseguenze che questi hanno su di noi. Si tratta, però, sempre e comunque di esperienze soggettive: riguardano la persona che le fa, non tutti; non hanno valenza oggettiva, in quanto non misurabili e analizzabili nella realtà. Se qualcuno mi dice “ho incontrato una persona morta, ho sentito la voce di Dio, ho visto un’altra dimensione”, io non potrei giudicare falsa l’esperienza di quella persona, semmai potrei giudicarla falsa in senso oggettivo, ossia non reale in se stessa e certamente non per me. Ma per quella persona, nella sua sfera esperienziale, se ha delle conseguenze e la spinge ad attribuire un valore e un significato a quanto vissuto, è “reale” in senso soggettivo. A me sono capitate poche, rare esperienze assurde; mi sono sembrate reali, ma essendo io scettico (se non erro, dal greco skeptizomai, ossia “monto di guardia, faccio la sentinella”) non posso fare a meno di chiedermi: era vero – e quindi assurdo – o era solo nella mia testa? Così anche l’esperienza altrui: la persona che mi parla di fantasmi ha davvero un contatto con esseri sovrannaturali, o piuttosto è tutto un sogno a occhi aperti? Questo dubbio è impossibile da dirimere, la convinzione è personale e quindi si rientra nella fede (credere senza prove concrete), o nella sua mancanza. Tutto è più facile per chi ha molte esperienze paranormali: la sua fede riposa comunque su una realtà soggettiva.

VI / Autocoscienza di Gaia. L’evoluzione umana potrebbe immaginarsi come raggiungimento dell’autocoscienza di “Gaia”, l’ipotetico organismo vivente costituito dal mondo con tutte le sue forme di vita e i suoi ecosistemi, secondo l’idea di James Lovelock. In quanto unica specie ad aver raggiunto un grado di razionalità produttiva di coscienza del sé, l’umanità ha compreso il funzionamento del pianeta e dei suoi abitanti, l’influenza della propria presenza sull’ambiente, ha formulato leggi sulla fisica e sulla chimica, arrivando a comprendere almeno una piccola parte dei misteri dell’universo. Tutta la conoscenza prodotta nella storia del mondo è ridotta alla nostra storia, il nostro periodo di esistenza fino a oggi; e gli unici che possono usufruirne siamo noi, gli stessi che la producono. Se scomparissimo, tutta la conoscenza andrebbe perduta, ma chi altro mai potrebbe usufruirne? Al momento e per quanto ne sappiamo, tralasciando fantasiose teorie alla X-Files, siamo soli nell’universo conosciuto. Senza l’opera di ricerca e catalogazione, di intepretazione e teorizzazione, si azione e trasformazione, nessun essere vivente saprebbe alcunché di cosa sia il mondo in cui vive. Allora, se non è accettabile la visione alla Matrix dell’umanità come virus (mica siamo gli unici esseri che modificano l’ambiente attorno a loro per delle esigenze di vita! Stupido agente Smith), è però olisticamente plausibile che il nostro ruolo e la nostra influenza sui sistemi bio/geo/ecc. sia quello di prendere coscienza di questi sistemi stessi e delle loro relazioni e interazioni. Cosa farne di tutta questa coscienza (che appunto diventa auto-coscienza del pianeta vivente di cui facciamo parte), riguarda più che altro il senso della nostra vita, sia che esista in sé o che vada costruito. In ogni caso, so di non essere l’unico a immaginare una cosa del genere: Douglas Adams ha addirittura immaginato la Terra come una sorta di “computer” costruito per porre la domanda fondamentale alla vita, l’universo e tutto quanto. Forse allora “Gaia” sta prendendo coscienza di se stessa attraverso di noi, suoi neuroni. Hegel, Hegel, dove sei?

VII / Uguaglianza cerebrale. Ci comportiamo tutti allo stesso modo, in ogni angolo del globo. Non nel senso che condividiamo la stessa cultura, mentalità o stile di vita – queste sono le cose che ci differenziano. Io parlo della quotidianità, delle relazioni interpersonali. Le liti di coppia, con la moglie che si lamenta del marito e viceversa; il giovane che si ribella al genitore, che disprezza i vecchi, solo per ritrovarsi a pensarla come loro una volta genitore e anziano; il sottoposto che vede nel capo un idiota e uno sfruttatore, e il capo che vede nel sottoposto un inferiore da usare; il corrotto e l’idealista che si contendono la scena; l’organizzazione prevalentemente patriarcale delle varie società e comunità; le forme di ritualità, di somministrazione della giustizia, di sacralità; e l’ingiustizia, che alla fine regna sovrana. Pochi esempi generali di situazioni che si ritrovano espresse in tutte le culture e le storie, di oggi come di cinque secoli fa, in Italia come in Giappone, in Canada come in India. Leggere certi passi dei testi sacri, delle opere poetiche, mitologiche e letterarie, più di recente vedere filme ascoltare canzoni, dà l’idea che su certe cose ci ritroviamo tutti nella stessa situazione, di paura, di gioia, di dubbio, ecc. Perché? Forse perché, nonostante tutti i cambiamenti e le differenziazioni, anche abissali, siamo tutti fatti allo stesso modo, per evoluzione: il nostro cervello ha una certa configurazione per motivi evolutivi, quindi è fatto per funzionare in un certo modo, dunque certe cose passano per la testa di tutti gli esseri dotati dello stesso tipo di cervello, per quanto possano essersi differenziate le forme superiori di civilizzazione (educazione, cultura, forme politiche, convenzioni sociali). Siamo tutti uguali, alla base, per configurazione cerebrale e psicofisica, che ci piaccia o no.