Nel 2024 ricorrono il centenario dell’omicidio di Giacomo Matteotti e gli ottant’anni di quello di Giovanni Gentile: il primo, deputato socialista strenuo avversario dell’autoritarismo fascista, rapito e ucciso dagli squadristi e divenuto vittima “sacrificale” per la nascita della dittatura (Mussolini, assumendosi la responsabilità morale dell’omicidio, riuscì a superare lo scandalo ed ebbe carta bianca per soggiogare il paese); il secondo, filosofo e pedagogista strenuo difensore del fascismo come compimento storico del Risorgimento, ucciso in un agguato da alcuni partigiani, e oggi assurto a “martire” per chi vuole seppellire la Resistenza.
Tutto ciò mentre al governo ci sono gli eredi della dottrina antidemocratica per eccellenza. Dei miseri reazionarietti rompipalle, certo, a confronto dei criminali che strangolarono la libertà a forza di manganellate e internamenti. Ciò nonostante, è la battaglia culturale che si sta perpetrando a doverci preoccupare: possono anche essere degli incompetenti per molti aspetti, o incredibilmente realisti e pragmatici per altri (specie l’adesione alle decisioni europee in tema economico, che altrimenti porterebbero guai molto fastidiosi in termini di multe); ma che siano, in larga parte, gli stessi adolescenti che negli anni Novanta-Duemila scrivevano DUX MEA LUX in ogni dove, cresciuti con Meloni – pardon, il Signor Presidente Giorgia – in quello stesso milieu a dir poco “anti-antifascista”, fa ben capire come la spinta verso una sorta di riabilitazione di idee e figure del Ventennio sia un obiettivo normalizzante alquanto pericoloso.
Non per una nuova dittatura, è ovvio che il fascismo-regime è morto e non può tornare in alcun modo. Bensì per una svolta conservatrice che metta definitivamente all’angolo l’antifascismo come posizione critica da cui far derivare la concezione di patria moderna. Perché una patria antifascista è, tra alti e bassi, una patria aperta, accogliente, integrante, tollerante; una patria dove si accettano stili di vita diversi, si criticano i modi di organizzare il lavoro e la distribuzione della ricchezza, si allarga l’idea di famiglia, si prova a trovare soluzioni alternative al carcere e all’espulsione. Perciò, con quel tipico cortocircuito di idee e salti logici dei reazionari di ogni sorta, la “donna, madre, cristiana” sente che gli Altri, con il loro stile di vita diverso, le “vogliono togliere” la sua essenza (che sarebbe per lei quella naturale e giusta) e, dunque, deve difendere ciò che ha togliendolo agli Altri. Senza percepire che nessuno vuole toglierle nulla, che può farsi i cavoli suoi e vivere come le pare, al massimo accettando che la sua visione possa non essere condivisa.
Per questo modello di intolleranza conservatrice, è necessario minare alla base lo spirito aperto della Costituzione e dei valori che costituiscono il grande ombrello dell’antifascismo, dal socialismo al cristianesimo al liberalismo vero (che in Italia non c’è più, scomparso con gli ultimi esponenti di Giustizia e Libertà). E questo minare alla base, lo abbiamo visto sin dalla “discesa in campo” di Berlusconi, si esplica attraverso sdoganamenti, riabilitazioni e denunce di fatti gravi, ma spesso decontestualizzati e travisati, della storia repubblicana. Se a Berlusconi va il (dubbio) merito di aver riportato in auge la destra italiana, che per decenni è stata relegata all’insignificanza parlamentare (e non per caso, visto che oltre le correnti cattoliche conservatrici della DC c’erano il MSI e persino i monarchici), il sostrato culturale su cui questa ribalta è stata garantita poggia sul revisionismo storico non solo rispetto al fascismo degli anni Trenta, ma anche rispetto allo stato-fantoccio della RSI, perché è lì, nelle pieghe della guerra interna, che si trova tutta la storia della Resistenza e la legittimazione antifascista della Costituzione.
Così, eventi oggettivamente orrendi come i cadaveri appesi a Piazzale Loreto, la strage di Porzus, l’attentato di Via Rasella, le rappresaglie contro chiunque avesse appoggiato il nazifascismo in qualunque modo ecc., diventando episodi a sé stanti, decontestualizzati e appiattiti sulla propaganda politica contingente, danno adito a parallelismi scorretti ed equiparazioni indebite, dove il “sangue dei vinti” serve a lavare quello dei colpevoli, e le memorie familiari sui treni in orario e le paludi bonificate contribuiscono a scaricare tutta la responsabilità degli eccidi e delle torture sui soli nazisti. Da qui, basta poco per andare a ritroso nel tempo e continuare a negare o a nascondere i crimini nelle colonie, il razzismo diffuso ben prima delle famigerate leggi, persino la repressione del dissenso e la gravità del confino; per non parlare poi di tutta la vicenda successiva alla guerra, ormai argomento spinosissimo, dell’esodo istriano-dalmata e delle foibe.
Qui si inserisce, per quanto passato in sordina (è ricorso il 15 aprile ma non ci si sono soffermati granché, se non sulle pagine culturali dei giornali di area), l’anniversario dell’omicidio di Giovanni Gentile, che anche a parer mio non doveva essere ucciso, ma viene presentato come la riprova che i partigiani erano uguali ai nazifascisti e perciò non hanno alcuna morale superiore; dal che consegue che l’antifascismo non ha alcun potere legittimante e che gli odierni nazionalisti conservatori, se hanno simpatie per il Ventennio, hanno diritto non solo costituzionale, ma addirittura etico, di rivendicare un’opinione sul passato. Opinione che, guarda caso, tende a legittimare l’esclusione, la censura, la chiusura, il rifiuto delle diversità.
Marco Travaglio, evidenziando come questa gente al governo sia ridicola rispetto ai veri fascisti, critica anche un certo atteggiamento antifascista piuttosto facilone, a suo dire, che non avrebbe senso perché non c’è un reale pericolo, scomodando partigiani e altri oppositori per fare post su facebook contro il pagliaccio reazionario di turno. Posso anche capire la sua visione, specie di fronte a certe esagerazioni stucchevoli, ma non la condivido, nel momento in cui non si rende conto che non è affatto necessario un regime, un governo che ti irregimenta con divisa e marce forzate, per ritrovarsi in una società autoritaria e intollerante dal punto di vista culturale. Per “cultura” intendo proprio l’insieme di mentalità, valori, opinione pubblica, gestione delle informazioni ed elaborazione collettiva delle stesse, che in ultima analisi si esprime in una percezione di sé come di una società tendente all’esclusione.
O abbiamo dimenticato come la Repubblica “democratica” attuava la censura preventiva e condannava, anche per vie traverse, ogni differenza reputata minacciosa per un corpo sociale da mantenere omogeneo? Negli anni Cinquanta e Sessanta eravamo ben lontani da un progresso che non fosse meramente economico. Oggi non abbiamo nemmeno quello, mentre la cultura conservatrice porta in TV gentaglia gretta e meschina, in quanto rescinde contratti con intellettuali di valore. Spesso, in nome di una “equità” assolutamente squilibrata.