Un anno da vivere pericolosamente

Funziona sempre…

Nel 2024 ricorrono il centenario dell’omicidio di Giacomo Matteotti e gli ottant’anni di quello di Giovanni Gentile: il primo, deputato socialista strenuo avversario dell’autoritarismo fascista, rapito e ucciso dagli squadristi e divenuto vittima “sacrificale” per la nascita della dittatura (Mussolini, assumendosi la responsabilità morale dell’omicidio, riuscì a superare lo scandalo ed ebbe carta bianca per soggiogare il paese); il secondo, filosofo e pedagogista strenuo difensore del fascismo come compimento storico del Risorgimento, ucciso in un agguato da alcuni partigiani, e oggi assurto a “martire” per chi vuole seppellire la Resistenza.

Tutto ciò mentre al governo ci sono gli eredi della dottrina antidemocratica per eccellenza. Dei miseri reazionarietti rompipalle, certo, a confronto dei criminali che strangolarono la libertà a forza di manganellate e internamenti. Ciò nonostante, è la battaglia culturale che si sta perpetrando a doverci preoccupare: possono anche essere degli incompetenti per molti aspetti, o incredibilmente realisti e pragmatici per altri (specie l’adesione alle decisioni europee in tema economico, che altrimenti porterebbero guai molto fastidiosi in termini di multe); ma che siano, in larga parte, gli stessi adolescenti che negli anni Novanta-Duemila scrivevano DUX MEA LUX in ogni dove, cresciuti con Meloni – pardon, il Signor Presidente Giorgia – in quello stesso milieu a dir poco “anti-antifascista”, fa ben capire come la spinta verso una sorta di riabilitazione di idee e figure del Ventennio sia un obiettivo normalizzante alquanto pericoloso.

Non per una nuova dittatura, è ovvio che il fascismo-regime è morto e non può tornare in alcun modo. Bensì per una svolta conservatrice che metta definitivamente all’angolo l’antifascismo come posizione critica da cui far derivare la concezione di patria moderna. Perché una patria antifascista è, tra alti e bassi, una patria aperta, accogliente, integrante, tollerante; una patria dove si accettano stili di vita diversi, si criticano i modi di organizzare il lavoro e la distribuzione della ricchezza, si allarga l’idea di famiglia, si prova a trovare soluzioni alternative al carcere e all’espulsione. Perciò, con quel tipico cortocircuito di idee e salti logici dei reazionari di ogni sorta, la “donna, madre, cristiana” sente che gli Altri, con il loro stile di vita diverso, le “vogliono togliere” la sua essenza (che sarebbe per lei quella naturale e giusta) e, dunque, deve difendere ciò che ha togliendolo agli Altri. Senza percepire che nessuno vuole toglierle nulla, che può farsi i cavoli suoi e vivere come le pare, al massimo accettando che la sua visione possa non essere condivisa.

Per questo modello di intolleranza conservatrice, è necessario minare alla base lo spirito aperto della Costituzione e dei valori che costituiscono il grande ombrello dell’antifascismo, dal socialismo al cristianesimo al liberalismo vero (che in Italia non c’è più, scomparso con gli ultimi esponenti di Giustizia e Libertà). E questo minare alla base, lo abbiamo visto sin dalla “discesa in campo” di Berlusconi, si esplica attraverso sdoganamenti, riabilitazioni e denunce di fatti gravi, ma spesso decontestualizzati e travisati, della storia repubblicana. Se a Berlusconi va il (dubbio) merito di aver riportato in auge la destra italiana, che per decenni è stata relegata all’insignificanza parlamentare (e non per caso, visto che oltre le correnti cattoliche conservatrici della DC c’erano il MSI e persino i monarchici), il sostrato culturale su cui questa ribalta è stata garantita poggia sul revisionismo storico non solo rispetto al fascismo degli anni Trenta, ma anche rispetto allo stato-fantoccio della RSI, perché è lì, nelle pieghe della guerra interna, che si trova tutta la storia della Resistenza e la legittimazione antifascista della Costituzione.

Così, eventi oggettivamente orrendi come i cadaveri appesi a Piazzale Loreto, la strage di Porzus, l’attentato di Via Rasella, le rappresaglie contro chiunque avesse appoggiato il nazifascismo in qualunque modo ecc., diventando episodi a sé stanti, decontestualizzati e appiattiti sulla propaganda politica contingente, danno adito a parallelismi scorretti ed equiparazioni indebite, dove il “sangue dei vinti” serve a lavare quello dei colpevoli, e le memorie familiari sui treni in orario e le paludi bonificate contribuiscono a scaricare tutta la responsabilità degli eccidi e delle torture sui soli nazisti. Da qui, basta poco per andare a ritroso nel tempo e continuare a negare o a nascondere i crimini nelle colonie, il razzismo diffuso ben prima delle famigerate leggi, persino la repressione del dissenso e la gravità del confino; per non parlare poi di tutta la vicenda successiva alla guerra, ormai argomento spinosissimo, dell’esodo istriano-dalmata e delle foibe.

Qui si inserisce, per quanto passato in sordina (è ricorso il 15 aprile ma non ci si sono soffermati granché, se non sulle pagine culturali dei giornali di area), l’anniversario dell’omicidio di Giovanni Gentile, che anche a parer mio non doveva essere ucciso, ma viene presentato come la riprova che i partigiani erano uguali ai nazifascisti e perciò non hanno alcuna morale superiore; dal che consegue che l’antifascismo non ha alcun potere legittimante e che gli odierni nazionalisti conservatori, se hanno simpatie per il Ventennio, hanno diritto non solo costituzionale, ma addirittura etico, di rivendicare un’opinione sul passato. Opinione che, guarda caso, tende a legittimare l’esclusione, la censura, la chiusura, il rifiuto delle diversità.

Marco Travaglio, evidenziando come questa gente al governo sia ridicola rispetto ai veri fascisti, critica anche un certo atteggiamento antifascista piuttosto facilone, a suo dire, che non avrebbe senso perché non c’è un reale pericolo, scomodando partigiani e altri oppositori per fare post su facebook contro il pagliaccio reazionario di turno. Posso anche capire la sua visione, specie di fronte a certe esagerazioni stucchevoli, ma non la condivido, nel momento in cui non si rende conto che non è affatto necessario un regime, un governo che ti irregimenta con divisa e marce forzate, per ritrovarsi in una società autoritaria e intollerante dal punto di vista culturale. Per “cultura” intendo proprio l’insieme di mentalità, valori, opinione pubblica, gestione delle informazioni ed elaborazione collettiva delle stesse, che in ultima analisi si esprime in una percezione di sé come di una società tendente all’esclusione.

O abbiamo dimenticato come la Repubblica “democratica” attuava la censura preventiva e condannava, anche per vie traverse, ogni differenza reputata minacciosa per un corpo sociale da mantenere omogeneo? Negli anni Cinquanta e Sessanta eravamo ben lontani da un progresso che non fosse meramente economico. Oggi non abbiamo nemmeno quello, mentre la cultura conservatrice porta in TV gentaglia gretta e meschina, in quanto rescinde contratti con intellettuali di valore. Spesso, in nome di una “equità” assolutamente squilibrata.


Sulla carità interpretativa

Dicesi “carità interpretativa” (se ho ben compreso l’oggetto) quell’atteggiamento di calma indulgenza nello scegliere il senso delle parole pronunciate da altri, lasciando aperta la possibilità che non siano per forza negative, aggressive o offensive, bensì un’espressione non immediata di significati possibilmente validi, positivi, differenti. Detto in altri termini – perché a volte le mie definizioni sono farraginose e inutilmente complesse – è la concessione del beneficio del dubbio a chi dice qualcosa che sul momento ci fa incazzare e per cui vorremmo dargli un calcio in bocca; forse l’altro non vuole dire proprio quello che abbiamo capito noi, forse sta solo dicendo qualcosa che a noi pare brutta, ma prima di saltargli al collo proviamo a pensare a un’altra versione, a un’altra interpretazione più positiva delle sue parole. Così, se effettivamente intende una cosa diversa, avremo evitato uno scontro inutile. Se invece abbiamo capito bene, salterà fuori lo stesso.

Negli ultimi tempi, ho esercitato parecchio questa carità interpretativa. Pur non avendo un carattere fumantino, anch’io posso essere “triggerato” da alcune cose, come un po’ tutti, e partire all’attacco senza guardare in faccia nessuno. Questo, in certi casi, mi ha portato guai e scocciature che mi sarei evitato se solo mi fossi fermato a pensare un attimo su ciò che avevo sentito o letto (va da sé che i fautori e le fautrici della carità interpretativa si riferiscano soprattutto al mondo senza freni né filtri dei social network, però vale anche nella vita reale). Una delle prime volte in cui mi sono trattenuto è stata con una vicina di casa; non ricordo il discorso che stavamo facendo, ma a un certo punto se n’era uscita con una considerazione che mi era sembrata molto irrispettosa nei confronti miei e della mia compagna. Ho avuto un moto istintivo di rabbia che stava per uscire sottoforma di battuta passivo-aggressiva, parecchio sarcastica, su di lei e la sua famiglia, ma mentre sentivo la morsa allo stomaco e la ascoltavo con un malcelato sguardo torvo, ho rapidamente riconsiderato le sue parole, reinterpretandole in un altro senso, senza fare capriole linguistiche, solo provando a darle appunto il beneficio del dubbio. Considerato che non c’erano motivi perché lei mi dicesse una cattiveria gratuita in una chiacchierata sul pianerottolo, e che a modo suo era anche proveniente da una cultura diversa (italiana, ma cresciuta all’estero per buona parte dell’infanzia), l’equivoco era più che probabile. E infatti non c’è mai stato alcuno strascico in altri incontri, perciò posso dire di aver fatto bene a essere “caritatevole” con le sue parole.

E’ indubbiamente faticoso e difficile, ma è possibile, tanto da procurarmi anche una certa aura di garbo tra colleghi e conoscenti. E’ bene allenare anche una buona dose di assertività, in modo da bilanciare lo sforzo di mordersi la lingua per non aggredire inutilmente l’altro, e al contempo non passare per remissivi (se non altro di fronte a se stessi). Il rischio di reprimersi va eliminato dal quadro, la carità interpretativa non implica l’autocensura, bensì la naturale calma nel capire cosa sia stato detto o scritto. Specie nell’ultimo caso, sul web, un dialogo difficoltoso può diventare impossibile, se si salta dalla sedia per ogni cosa.

Poi ci sono i casi in cui lo sforzo è davvero enorme. Mi è capitato di recente con un tecnico che doveva fare un lavoro in casa, uno che avevo già contrattato un annetto fa. Lo chiamo per un preventivo, lui viene, spara un prezzo assurdo dicendomi che è pure poco e che lo fa a me e non ad altri, se ne va convinto di tornare la settimana successiva, e quando vede che non lo richiamo mi contatta e, tra un catastrofismo e l’altro (“guarda che è urgente farlo, c’è rischio, eh, rischio” e altre menate), quando gli dico che devo rimandare perché il suo prezzo non rientra nel mio budget mi dice qualcosa come “ok, ma risentiamoci, mi darebbe fastidio che lo facessi fare a qualcun altro”. Stessa morsa allo stomaco, con annessa voglia di mandare a fare in culo e attaccare il telefono in faccia, magari urlando che non me ne frega un cazzo se gli dà fastidio, cosa crede, di avere l’esclusiva sulla manutenzione di casa mia? Che gli dovrei pure delle spiegazioni se poi lo facessi fare a qualcun altro? Solo a scriverne mi pulsano le tempie, dal tanto di fastidio che lui ha dato a me con quella frase.

Ma forse era solo un modo di dire. Un rafforzativo (sbagliato) da manuale di marketing per far leva su qualche vena emozionale, pietistica, nei suoi confronti. Poteva voler dire “mi dispiacerebbe non essere io a risolverti il problema”, o in positivo “mi farebbe piacere poterti venire incontro” (sempre per lo stesso prezzo però); forse ha solo usato una infelice combinazione. Infatti ho abbozzato, gli ho detto che al momento non potrei farlo fare a nessuno in ogni caso, e che magari ci saremmo risentiti più avanti, stando in condizioni migliori.

Però resta il fatto che lo ho trovato davvero insolente, arrogante, e che di sicuro adesso farò fare il lavoro a qualcun altro, anche solo per non averlo di nuovo tra i piedi. Più di altre volte, ho la sensazione di aver fatto il “gentiluomo” quando non ce n’era necessità, mentre fare un po’ il “barbaro”, sempre senza aggredire a prescindere, poteva mettere in chiaro le cose anche per il futuro. Non so, il dubbio questa volta è più forte e scriverne qui mi aiuta più che altro a esternarlo invece di rimuginarci su nel chiuso della mia testa.

E tutto per una frase buttata là.


Cacacatsi ‘esoterici’

Un altro “problema”

Come spesso mi accade, quando prendo parte su un argomento mi arriva, non richiesta né sollecitata, una “stoccata” dall’altra parte, che mi costringe a fare un’ulteriore commento. In questo caso, dopo aver sfogato la mia frustrazione sui cacacatsi “scientifici”, senza peraltro aver dato chissà quale credito a chi crede in varie altre idee spirituali e metafisiche, ecco che mi ritrovo a leggere un articolo semplicemente assurdo, scritto da una specie di mago, ex-poliziotto, in cui si parla di alcune beghe interne a una non meglio specificata organizzazione di credenti, che avrebbe eletto (con elezioni interne) un leader, solo per spodestarlo con dei brogli e rimettere al suo posto il leader uscente, ovviamente inviso all’autore.

Ora, l’assurdità non risiede certo in un ordinario meccanismo di potere interno a qualsivoglia organizzazione; risiede nelle considerazioni portate avanti dal mago-poliziotto, per il quale la colpa del risultato delle elezioni è dei meridionali presenti nell’organizzazione, i quali, congenitamente mafiosi, stanno ribaltando un cambio al vertice contro il progresso e la superiore umanità del candidato trombato. Queste qualità negative dei meridionali sarebbero per lui evidenti, in quanto è in grado di riconoscerle grazie ai “segni spirituali nel corpo”, ossia, se ho inteso, determinate caratteristiche morfologiche derivanti da una diversa natura umana, inferiore moralmente, che traspare attraverso le fattezze fisiche. Lui le riconosce perché ha studiato per anni dottrine spirituali, magico-alchemiche, da cui deriva la possibilità di separare le nature umane in vari gruppi e ordini (lui, come risulta ovvio dalle sue capacità, dalla sua rettitudine morale e dal fatto di risiedere a settentrione, appartiene a un gruppo diverso e migliore di quello dei mafiosi meridionali). Voglio dire, siamo ben oltre teorie di stampo lombrosiano: siamo al razzismo spirituale vero e proprio.

Quindi, non starò a fare qui uno sproloquio come l’altra volta, perché non ne vale la pena; ma uno sfogo su questa gentaglia che usa l’esoterismo per giudicare, incasellare e degradare gli altri, me lo concedo eccome. Gentaglia di tal fatta mi fa riscoprire tutta la nera fanghiglia delle credenze irrazionali, che pongono un freno al progresso e sono pericolosissime quando prese sul serio. Ma anche senza prenderle sul serio: una vecchia conoscente, che credeva alla qualunque, era anche fissata con l’astrologia; fin quando una persona le stava simpatica, ne esaltava le qualità dovute al segno, ma quando – e non era creto infrequente – la stessa persona le diventava antipatica, ecco che quel segno zodiacale diventava il peggiore di tutto l’oroscopo. Ridicolo, no?

E di nuovo m’incatso

Ora, mettetevi nei miei panni: a fronte di una vita da illuminista/materialista, decido di ritrovare i miei interessi adolescenziali nella più aperta e spassionata forma di ricerca spirituale, mediata dalla prospettiva antropologica per conoscere l’animo umano attraverso il simbolismo esoterico, occulto, magico-religioso, sempre senza crederci, ma con mente aperta… magari ritrovando nell’occultismo ottocentesco, nei simboli massonici e nella storia della stregoneria una diversa forma di spiritualità, priva di dogmi e precetti, a suo modo antica e moderna al tempo stesso, e cosa accade? Che trovo l’ambiente infestato di credenti pazzi, irrazionali e in certi frangenti persino peggiori di preti e sacerdoti, infarciti di idee folli e pregiudizi razzisti, sessisti, classisti e xenofobi.

Che ne è dell’esoterismo come ricerca di se stessi? Come specchio delle nostre anime, percorso spirituale, auto-interrogazione sul senso delle nostre esistenze? Tutta fanghiglia che soffoca il cervello, se si seguono questi babbei creduloni che fondano i loro grezzi preconcetti su fantasie costruite a tavolino. Ecco allora i cacacatsi “esoterici”, anch’essi tra virgolette, perché per me, sul mio tavolino, nel mio orto, l’esoterismo e l’occultismo sono altro. Un cacacatsi “scientifico” una volta ha detto che riteneva l’astrologia offensiva, perché spingeva la gente a giudicare gli altri sulla base di un segno zodiacale inesistente; lo avevo trovato quanto meno sgarbato, perché il segno non esiste, ma il diritto a una visione differente (astrologica o religiosa che sia) andrebbe rispettato anche quando farebbe ridere. Ora mi spunta un cacacatsi “esoterico” che è un leghista-razzista spirituale; oppure tempo fa, un gruppo su un forum, in cui tutti si dicevano l’un l’altro “non vedranno mai quel che vediamo Noi” mentre perculavano un poveraccio secondo il quale scrivere sul manifesto funebre “si è spento serenamente” non era corretto, in quanto ognuno di noi si attacca alla vita fino all’ultimo (cosa assurda per loro, che speravano di lasciare “questo piano di realtà” al più presto possibile e “ascendere” dove appartenevano). embé? Come dovrei prenderla?

Sul “mio” occultismo

Ne parlerò un giorno approfonditamente, comunque, per completare: in questi ultimi tempi sto leggendo senza sistematicità due testi esoterici: uno è Dogma e Rituale dell’Alta Magia di Eliphas Levi, l’opera maggiore del più importante occultista francese dell’Ottocento; l’altro è Il Libro Infernale. Tesoro delle scienze occulte, pubblicato da Edizioni Mediterranee, una raccolta di grimori più o meno antichi, con incantesimi di magia nera e rossa, accompagnati da vari capitoli sull’occulto, dalla chiromanzia allo spiritismo. Non è la prima volta che mi imbatto in libri del genere: hanno un certo fascino, e credo che abbiano almeno il potere di rivelare la natura delle persone, far capire di cosa certa gente ha paura, o da cosa è attratta. Ricordo che al ginnasio ebbi l’infelice idea di portare un libricino simile, un manualetto di stregoneria spicciola, in classe. Volevo parlarne, discuterne, ma ovviamente ne rimasero inorriditi tutti e mi dissero di bruciarlo. Quel volumetto mi rivelò un mondo di superstizione religiosa che non mi sarei mai aspettato (certo ingenuamente) e mi fece capire quanto sopravvalutata sia la razionalità moderna rispetto all’abisso di ignoranza atavica che occhieggia anche dalle persone teoricamente più colte. Dunque sì, almeno un incantesimo involontario può essere realizzato…

Per chi ci crede, possono forse essere uno strumento per provare la magia pratica – cosa che sconsiglio, dato che specie quella nera prevede quasi sempre di torturare e uccidere degli animali, in particolare poveri gatti neri; parlo soprattutto del Libro Infernale, perché quello di Levi, finora, si concentra molto più su simboli e rituali non violenti. Per chi invece non ci crede, come me, può invece essere un interessante oggetto di studio antropologico e culturale, uno specchio delle credenze metafisiche alternative con cui, a mio parere, l’umanità ha sempre cercato di capire (e talvolta curare) se stessa sul piano che oggi può essere definito psicologico. Non è un caso, dopotutto, che la psicoanalisi affondi le radici proprio negli studi antropologici sulla mitologia e il misticismo, con Freud come padre razionale e Jung come ricercatore credente. Quindi la mia tensione spirituale non va nel senso di una nuova fede, bensì nel recupero di una dimensione simbolica che per molto, forse troppo tempo, ho lasciato da parte e di cui ho vagamente sentito la mancanza da un po’. E per ora mi fermo qui.


Ancora sulla mascolinità tossica

Qualche tempo fa avevo scritto un post sulla mascolinità tossica. Tra gli interessanti commenti, ne ho però ricevuto uno del tutto contrario, che non ho approvato sul momento perché non avevo intenzione di rispondere in maniera impulsiva e negativa. Alla fine sono passati oltre due anni, finché, rileggendolo, ho pensato di scriverci questo nuovo post, per provare a riflettere ancora un po’ sul tema, certo senza complicazioni. Questo il commento:

“La mascolinità appartiene a tutti i maschi della terra, così come la femminilità appartiene a tutte le femmine della terra.
La mascolinità è l’anima del maschio.
Affermare che esiste una mascolinità tossica è come dare una pugnalata all’anima di tutti imaschi della terra, a prescindere.
Il risultato sarà solo quello di offendere tutti gli uomini e allontanarli da Voi.
Esistono solamente brave e cattive persone, uomini e donne.
La mascolinità tossica è una invenzione delle femministe misandriche, quelle si che sono tossiche.”

Risposta:

Ho pensato molto a lungo se risponderti o no. Questo tuo commento è un esempio calzante di una certa mentalità maschilista chiusa e lontana dalla complessità del mondo. Io non condivido una sola parola, ma poiché non dimentico come la pensavo prima di capire il senso di certi discorsi, proverò a darti qualche elemento di riflessione, senza fronzoli eccessivi.

“La mascolinità appartiene a tutti i maschi della terra, così come la femminilità appartiene a tutte le femmine della terra. La mascolinità è l’anima del maschio.”

Tu dai per scontato che esistano due forme di essenza, appartenenti alla natura dei sessi. Ed è in base a questo che si decide, in società, cosa è da maschi e cosa è da femmine, con una differenza basata sulla “natura” sessuale. Ma se così fosse davvero, come si spiegano le differenze tra un maschio e un altro? Come si spiegano le diverse attitudini e i diversi modi di comportarsi? Le diverse tendenze nei gusti e negli atteggiamenti? Non siamo tutti omologati, fatti con lo stampino. Non abbiamo tutti voglia di fare il soldato, il calciatore, il politico o la guardia giurata; o di andare a caccia, o ancora di arrivare alla dirigenza di una grande impresa. Così come non tutte le femmine vogliono badare alla casa, occuparsi di fiori e decorazioni, cucinare, fare la segretaria, essere madre. Anzi, quanto più si parla e si discute di questi ruoli, tanto meno questi sembrano avere senso a causa di presunte “anime” legate al sesso biologico. Ci sono uomini effeminati e donne mascoline: questo come si concilia con l’idea di un’anima legata ai genitali?

“Affermare che esiste una mascolinità tossica è come dare una pugnalata all’anima di tutti imaschi della terra, a prescindere.”

E perché mai? Se le parole hanno un senso, bisogna riflettere su quel senso: la mascolinità “tossica” è un tipo specifico di mascolinità e se non vuoi sentirti “pugnalato” devi chiederti come mai l’aggettivo ti dà fastidio. Forse senti che alcuni atteggiamenti che hai, sono considerati tossici anziché normali? Cosa si intende per tossico, allora? E cosa c’è, in quel che fai, che potrebbe esserlo? E se tossico lo è sul serio, perché non provi a capire come mai qualcuno lo considera tale, invece di sentirti offeso e dire che stanno insultando l’anima collettiva di cui pensi di far parte?

“Il risultato sarà solo quello di offendere tutti gli uomini e allontanarli da Voi.”

Questa è una scusa bella e buona. Ti barrichi dietro la totalità degli uomini per dire cosa faresti tu. Magari per poi poter dire, sempre e a chiunque, che “è colpa loro”, delle donne che ti dicono che sei tossico. Così non devi assumerti alcuna responsabilità e non metti in discussione nulla di te e della tua vita sociale. Se ti pare una cosa “da uomo” questa… di certo non è da adulto.

“Esistono solamente brave e cattive persone, uomini e donne.”

Come ho detto, ti capisco, almeno in parte. Anch’io sono stato a lungo tra quelli che dicono “ma non tutti gli uomini sono violenti!”, tirandomi fuori dalla categoria (neanche molto tempo fa) e sentendomi in certo modo discriminato solo per il fatto di essere maschio. Però il fatto che io non abbia mai ucciso o stuprato una donna, non significa che non debba interrogarmi su cosa faccia essere così violenti tanti altri “colleghi”. E’ una cosa talmente diffusa e costante, che non può essere solo un impulso animalesco, o una caratteristica di quell’anima che dici tu. Deve essere un problema anche culturale, di come veniamo educati, di quali messaggi passano nelle nostre teste. La mascolinità è una caratteristica che può anche non essere tossica, cioè può assumere tratti positivi, di responsabilità e maturità, di sicurezza anziché paura, esattamente come la femminilità. Ma diventa tossica, cioè malsana e velenosa, quando impone di fare certe cose in un certo modo, a pena di essere insultati, sminuiti o addirittura aggrediti; di vivere la propria vita dovendola adeguare a idee e valori altrui, a stare sempre nei binari prestabiliti da altri, che saranno sempre pronti a fartela pagare se ti permetti di scegliere diversamente. E questo genera una pressione sia psicologica, sia sociale, che può renderti insicuro e pieno di paure, per affrontare le quali hai solo una scelta: la rabbia, l’aggressività e la violenza contro chiunque. Non puoi essere il maschio che decidi di essere, devi sempre essere il modello prestampato di maschio che qualcun’altro ha deciso per te, per tutti, e devi costantemente dimostrarlo. Ti piace questa cosa? A me no.

“La mascolinità tossica è una invenzione delle femministe misandriche, quelle si che sono tossiche.”

La misandria è a sua volta un’invenzione dei maschilisti reazionari e insicuri, che vogliono appiattire tutto sull’odio e farsene vittime. E’ giusto l’ultimo artificio retorico nella lunga serie di tentativi di dare tutte le colpe a quelle femministe che non gliela danno (e zitte). Ma il punto del mio articolo non era neanche questo. Semmai, è il problema che abbiamo noi uomini, tra di noi, prima che con le donne o le altre identità sessuali. La mascolinità tossica, è tossica anzitutto per noi. E’ un veleno che prima rovina noi, poi le donne e l’intera società. Ed è un veleno che ci siamo procurati da soli, per controllarci l’un l’altro, per dominarci gli uni sugli altri, e così controllare e dominare il resto. E se non obbediamo ai dettami, siamo esclusi, aggrediti, vilipesi, fottuti.

Non è sempre così, dirai. Non lo è, infatti. Ma lo è sempre una volta di troppo.


Cacacatsi ‘scientifici’ (sfogo estemporaneo)

[Non ho mai visto Il dottor Mabuse, ma la posa va bene]

Premessa: è fondamentale combattere la ciarlataneria, il pensiero magico e la pseudoscienza, quando queste cose minacciano la salute pubblica o inquinano la comprensione dei fatti. Al netto del diritto di ciascuno nel credere in ciò che vuole, se una credenza diventa pericolosa (p. es. negando la validità della medicina scientifica, o generando teorie del complotto in cui qualcuno ci lascia le penne), essa va contrastata senza scrupoli. Detto questo…

Io ho un “problema” di fondo con gli esponenti di un certo pensiero scientifico, in modo particolare taluni divulgatori e divulgatrici, ma anche esperti vari quando esprimono determinate opinioni su campi diversi dal loro. Questo “problema”, che scrivo tra virgolette (pardon, tra apici doppi) perché non è un problema reale, ma solo una sensazione di fastidio provato di fronte a certi atteggiamenti, riguarda in effetti un modo di porsi comune a un po’ tutti gli esperti di qualcosa, che vedono nel loro campo di studi e interessi l’unica possibilità di comprendere il reale, l’esistenza, l’umanità e l’universo. Si tratta di un atteggiamento riscontrabile in chiunque sia convinto di avere la chiave per la verità, qualunque essa sia e comunque la si intenda: dalla verità rivelata, calata dall’alto e completa, a quella sfaccettata e parziale che si scopre pezzo dopo pezzo, con grande fatica e necessari aggiornamenti. Ed è una cosa che mi dà un fastidio semplicemente enorme.

Arroganti/saccenti

Già quando si tratta di religioni e credenze è terribile; ma quando si ritrova la stessa arroganza in contesti scientifici (sia soft che hard science), la cosa mi diventa insopportabile. Nella mia visione, magari ingenua e priva di filtri, tutto il pensiero moderno si basa o dovrebbe basarsi su un modello critico in cui, con una buona dose di spregiudicatezza, si mette in discussione qualsiasi cosa, anche le proprie posizioni, sospendendo il giudizio quando serve e mantenendo un grado di apertura mentale che renda possibile almeno la tolleranza, se non il rispetto, delle visioni del mondo diverse dalla propria. Dunque, ricercare le verità, esplorare le possibilità e non imporre a suon di insulti la propria idea di mondo, bensì lasciare che la sua parte più valida convinca chi se ne lasci conquistare. Ecco, quel “non imporre a suon di insulti la propria idea di mondo” è ciò che invece vedo fare a un sacco di gente teoricamente contraria alle imposizioni (altrui).

Ribadisco che questo atteggiamento si trova in persone di qualunque ambito: in chi studia letteratura, storia, psicologia, ingegneria, biologia, sociologia, teologia ecc.; in chi lavora dietro una scrivania, in un laboratorio, in una buca nel terreno, in una discarica, in una base militare, in un centro commerciale, ecc.; in chi va in televisione, in chi fa contenuti su internet, in chi pratica sesso orale nei bagni delle stazioni di servizio, insomma in chiunque e ovunque. Ci sarà sempre qualcuno, in qualche ambito, che pensa di avere la sola giusta e reale chiave di lettura dell’intero universo.

Però quelli che detesto maggiormente sono proprio gli “scienziati”, quelli che convertono il rigore dei loro studi in arroganza e saccenteria, negando qualsiasi valore a ogni altro campo, anche liminare alla scienza stessa, arrivando a perculare e insultare chiunque abbia un’idea non basata sulla loro branca teorico-sperimentale, ritenendoli immagino gente stupida che non ha capito nulla e perde tempo contando cazzate. In quanto loro, rigorosi e con tanti dati alla mano, hanno invece capito tutto, e dall’alto della loro conoscenza svuotano i loro pitali sulle teste degli inferiori.

Non di tutta l’erba un fascio

No, no, non sto facendo il solito rimbrotto populista sulle teste d’uovo che vogliono intortarci coi vaccini, lo sbarco sulla luna e l’11 settembre. Io amo la scienza. Sono felice che il mondo, o almeno una buona parte di esso, sia oggi più incline al pensiero e al metodo scientifici; che ci sia, nonostante tutto, più ricerca, più verifica, più informazione basata su dati, risultati, confronti e rigorosi controlli. Io, da eterno studente di filosofia, sono un materialista convinto, un ateo, un illuminista nel senso kantiano del termine. Senza un metodo critico, materialistico, positivista, razionale, non avremmo nulla di ciò che abbiamo oggi e non andremmo molto più in là di dove siamo ora. Sono convinto, senza facili entusiasmi, delle possibilità di progresso in ogni campo, se solo riusciremo come specie a mantenere un grado accettabile di razionalità nel direzionare i nostri sforzi al miglioramento della condizione umana.

Ma questa fiducia viene meno quando sento gente teoricamente razionale, usare ogni mezzo a disposizione per denigrare chi non sa quel che sanno loro. E’ sgradevole, ingiusto e irritante. Esempio: per alcuni “scienziati”, quale che sia il loro campo (di solito la chimica, la fisica, la biologia e altre materie dure), praticamente ogni altro ambito di ricerca sembra essere equivalente all’astrologia. Ossia è un coacervo di affermazioni infondate, prive di dati sperimentali, o in diretta opposizione a essi; non c’è bisogno di tirare in ballo la filosofia (che non è scientifica manco per il genitale maschile), bensì una materia come la psicologia, che nelle sue linee generali invece apparterrebbe all’ambito scientifico, o come la sociologia, pure rigorosa in molti studi. Ecco, psicologia e sociologia sono, per certa gente, una forma di astrologia applicata a individui e società, infarcita di metodi e termini scientifici corrotti e degradati, usati a genitali di cane, per convalidare idee apodittiche e fantasie sbagliate. Atteggiamento degno del personaggio di Temperance Brennan, protagonista della serie tv Bones.

Ora m’incatso

Voglio dire, che razza di mentalità piccola e ristretta si deve avere, per ridurre tutto lo scibile al proprio campo di specializzazione? Noi, come società, abbiamo un problema culturale nel momento in cui la visione sociologica (che mette al centro il contesto) nega la validità delle spiegazioni psicologiche (che mettono al centro l’individuo) e viceversa, perché i due campi, per molti versi inconciliabili nelle premesse, hanno invece la possibilità di trovare la quadratura del cerchio parlando dell’interazione tra individuo e contesto. Nulla di semplice, certo, perché mai dovrebbe esserlo? Però necessario, per quanto complesso. E su questo problema, certi “scienziati” che fanno? Negano validità a entrambi sperticandosi nell’evidenziarne la presunta non-scientificità. Danno poi un loro contributo, dal loro ambito specialistico? Solitamente no. E allora, che cazzo vogliono? Offendersi se qualcuno dà loro dei rompicoglioni? Sentirsi umiliati e quindi giustificati nel loro astio, se qualcuno non li ascolta? E chissà come mai! Uno passa la vita a studiare filosofia, antropologia culturale, letteratura antica e moderna, filologia (ecco, andassero in una facoltà di lettere a seguirsi un corso di filologia, e poi vediamo chi non ha rigore), arte, per sentirsi dire che ha buttato via anni e risorse in roba inutile che non risolve alcun problema dell’umanità.

Aristotele è un delinquente! Uno dei bersagli preferiti, lo odiano tutti. Immagino sia per le opere sulla natura, che ovviamente oggi non hanno alcuna validità, come in concreto non l’avevano nemmeno all’epoca, con altri filosofi che avevano intuito meglio di lui certi meccanismi. Ma era, appunto, un’altra epoca. Come si può appiattire tutto sull’attualità? Qui sono io a tirare in ballo, ora, l’astrologia: oggi non ha alcuna possibilità di senso, con le osservazioni astronomiche che hanno eliminato tutta la visione su cui si basano i segni e le misurazioni. Ma una volta non c’era la consapevolezza della centralità del Sole nel sistema, della posizione di questo nella Via Lattea, della natura del movimento dei pianeti, delle galassie, dei buchi neri, della rete di ammassi di galassie ai limiti dell’universo (ora) osservabile. C’era solo la limitata disponibilità di mezzi per osservare il cielo da limitati punti di vista, e questa conoscenza veniva commistionata con una cultura assai diversa, spirituale, metafisica, olistica, in cui natura e spirito erano considerati in unità. Sapendo questo, pur deprecando il successo attribuito ancora oggi e sempre di più all’astrologia, possiamo almeno evitare di perculare il passato come se fosse presente, e vedere in essa un retaggio superato di un tentativo di osservazione dell’universo? Non erano stupidi, avevano un’idea basata sul mondo osservabile e sulle loro credenze.

Per finirla qui (con l’aiuto di uno non rientrante nella categoria incriminata)

Semmai, capisco bene e condivido le preoccupazioni sull’uso errato del metodo scientifico per “convalidare” ipotesi fantasiose e potenzialmente pericolose, facendo leva sulla diffusa ignoranza in merito al metodo stesso. Questo non solo mi fa sorridere della facilità con cui si usa – per fare un esempio molto in voga – la teoria dei quanti per giustificare la qualunque, o di come si usi un linguaggio scientifico e “ricerche” non meglio specificate per comprovare, chessò, il potere della preghiera sulla materia e sul corpo (senza contare il principio di autorità, che per esempio vede nei premi Nobel i massimi indiscutibili geni in ogni campo). Mi fa anche temere per quel mondo razionale che dovrebbe farci progredire verso qualcosa di più e meglio; per quel pensiero critico che dovrebbe farci uscire da una visione magica e farci conoscere e accettare la realtà (donandoci quindi consapevolezza nella coltivazione della creatività e della capacità di sognare). Insomma, la comunità scientifica è una cosa, i rompitesticoli saccenti e arroganti per la loro passione scientifica sono un altro, spero questo sia chiaro. Volevo solo sfogarmi un po’.


Toni Negri, 1933-2023

Antonio Negri, detto “Toni”, è morto nella notte tra il 15 e il 16 dicembre. Ed è stato uno dei pensatori fondamentali nella mia crescita intellettuale nel periodo all’inizio degli studi universitari.

All’epoca aveva già avuto un grande successo No Logo di Naomi Klein, i movimenti no-global e il Forum Sociale Mondiale stavano occupando i notiziari con la loro ondata sperimentale, in Italia c’erano le “tute bianche”, gli adepti del “black block” e Wu Ming era in prima fila nel propagandare la partecipazione massiva a quello che sarebbe diventato un orrendo massacro.

Io vivevo tutto con passione, ma da lontano, studiando, leggendo, informandomi (non ero proprio il tipo da scendere in piazza). In un momento in cui cercavo idee nuove per principi antichi, Antonio Negri e Michael Hardt mi hanno aperto prospettive differenti per un mondo instabile e dinamico, con la pubblicazione di Impero, seguito a ruota da Moltitudine (e qualche anno dopo dal terzo grande capitolo Comune, infine dai recenti Questo non è un manifesto e Assemblea). L’interesse suscitato mi spinse poi a cercare altri lavori di Toni, da quelli più vecchi, legati alla contestazione e all’operaismo, a quelli filosofici e di approfondimento su Spinoza e Lenin. Non sempre ho concordato con le sue posizioni, anzi; però mi ha fatto sentire la necessità profonda di ripensare a tutto ciò che davo per scontato.

Lo ricordo con l’articolo che scrissi nel 2014, i video di Saudino che ne spiegano il percorso intellettuale politico, un documentario (in alto) e alcune interviste nel tempo. D’altro canto, il nome stesso di questo blog trae ispirazione dalle idee dell’ultimo Toni (es. Comune, pag. 251). Riposi in pace.

[su quest’ultimo video, in generale a me non va che si emettano “patentini”, ma la sua analisi è estremamente accurata]


30 anni di Doom!

Mi sono appena accorto che quest’anno Doom compie trent’anni. Happy fucking birthday! Uscì infatti il 10 dicembre 1993, rivoluzionando il mondo dei videogiochi. Lo so, inutile perdersi in spiegazioni superflue, tutti noi siamo cresciuti con questo gioco della madonna. Infatti non starò a dir nulla su di esso: il solo fatto di aver citato più volte elementi a proposito, mi denuncia come fan sfegatato. Ma questo non vuol dire che non abbia nulla da dire in generale… specie riguardo la musica. La colonna sonora originale in formato MIDI fu composta da Bobby Prince, evidentemente appassionato di metal e grunge, che tra il primo capitolo e il secondo non si fece certo pregare a realizzare cover interessantissime e al limite (non superato) del plagio. E di questo non possiamo che ringraziarlo.

Conobbi Doom nella versione Super Nintendo. All’epoca ero assolutamente affascinato dalla novità dei First Person Shooter, la cosa che più sembrava una specie di realtà virtuale. Avevo ardentemente desiderato Wolfenstein 3D e me lo godetti moltissimo, ma con Doom, che le riviste dell’epoca esaltavano oltre ogni dire, mi ritrovai scaraventato in un universo alternativo incredibile, inquietante, angosciante, spaventoso, disturbante, bello da morire. Ricordo ancora la prima partita: il gioco iniziò da solo, niente menu, niente start, niente, solo la schermata di presentazione e subito nell’azione (oddio, “subito” per modo di dire, rimasi lì come un rimbambito a fissare lo schermo, credendo che fosse una demo, e solo dopo alcuni secondi provai a premere i tasti per scoprire che ero già in mezzo al gioco…). La grafica, rivista oggi, è davvero sfocata*, io vedo in quel modo quando mi tolgo gli occhiali, ma in quei giorni era folle, una realtà virtuale immersiva e coinvolgente. Quante ore ho passato su Phobos, Deimos e l’Inferno stesso; quanto ho esplorato, per conoscerne ogni angolo. E che musica! Su questo, il Super Nintendo era sempre una spanna sopra tutte le altre console. Uno dei miei brani preferiti, “On the Hunt“, su SNES era anche in una delle mie mappe preferite, “Pandemonium” (peccato che nell’originale su PC ne abbia un’altra). Un’altra che mi ha accompagnato a lungo, “Sinister“, era peraltro in una mappa (un’altra che adoravo) che mi capitava sempre di giocare in giorni di pioggia. Quando arrivavo lì, il cielo era inevitabilmente scuro. Coincidenze, certo… certo. Comunque, tutta la playlist è una versione ottimale dell’originale.

* [però ho trovato un sito dove si può giocare la versione originale online gratis, e spalmato sullo schermo piatto del mio laptop non è poi molto diverso]

La versione per PlayStation, uscita nel ’95, era profondamente diversa nell’atmosfera: in breve, quando ogni console degli anni Novanta otteneva il suo port, si finiva con l’avere una versione di Doom con qualche caratteristica assolutamente originale - e non sempre positiva: per esempio una finestra di gioco ridotta, una qualità video molto pixelosa o, persino, l’assenza totale proprio della musica, per motivi di compressione, spazio, soldi ecc. Nel caso della PS1, si trattava di audio e video: per il secondo, pur vantando una fluidità e una chiarezza senza pari, c’era una desolante conformità degli scenari (niente più sale computer piene di grafici et similia, solo infiniti “pannelli” privi di sex-appeal). Per il primo, una intera colonna sonora completamente nuova e realizzata appositamente! Certo, niente più pseudo-cover heavy metal di Bobby Prince… ma in cambio di una delle atmosfere più inquietanti, foriere di disagio e disturbi psichici che mi sia mai capitato di sentire. L’autore di questa angoscia in musica è Aubrey Hodges, che più tardi l’avrebbe anche pubblicata in album. Confesso che all’inizio ne rimasi deluso, abituato com’ero alla versione SNES che, sebbene pixelosissima, era praticamente il gioco originale; ma col tempo ho iniziato ad apprezzarla, a immergermi nella follia che suggeriva, a lasciarmi compenetrare dalle immagini mostruose e disperanti che evocava. Ed evoca tutt’ora. Su YouTube non ho trovato versioni dei brani con i titoli, ma stando a quanto elencato nella pagina di Hodges, uno dei miei brani preferiti di questa colonna sonora è molto giustamente intitolato “Mind Massacre“. Godetevelo e, se ne avete voglia, ne aggiungo un’altra da incubo, “Breath Of Horror“, che vi [s]consiglio di ascoltare di notte, da soli, al buio.

Data la consapevolezza del trentesimo anniversario di Doom, i video speciali si sono susseguiti durante tutto l’anno. Grazie a AVGN, che ha fatto uno speciale sulle versioni del gioco, ho scoperto che il port per il 3DO (questa console così piena di potenziale eppure così mal sfruttata sotto ogni aspetto e su ogni fronte) non solo ha la colonna sonora originale di Bobby Prince, ma addirittura in una versione eseguita con strumenti veri! Il risultato è la miglior versione possibile della musica… applicata alla peggiore conversione possibile del gioco. Chiaro che parlo per sentito dire, io non ho mai nemmeno visto un 3DO dal vivo. Ma dai video in rete è tremenda. Pare che dovesse almeno presentare delle cutscenes piuttosto brutali tra una mappa e l’altra, ma pur avendole girate non hanno avuto modo di inserirle – né sembrano rintracciabili altrove (nell’anteprima del brano potete infatti ammirare un mostro che sarebbe dovuto apparire nelle suddette cutscenes). Le musiche, da quanto vedo, non sono proprio tutte, ma bastano e avanzano per un ascolto davvero coinvolgente. Vi lascio quella della prima mappa.

E chiudiamo con questa rapida carrellata sulle musiche di Doom. Il terzo capitolo è l’ultima versione che abbia giocato fino in fondo, dapprima come shareware su PC, con un cd allegato a “The Game Machine” se non sbaglio; quella fu già una forza, perché c’era una possibilità pressoché infinita di esplorare, specie prima del disastro che dà avvio al gioco. Poi, nella versione Xbox originale, che invece è più votata all’azione, più lineare, ma non per questo meno immersiva. La cosa che mi era piaciuta sin da subito è che si trattasse di una sorta di remake dell’originale, con tutta la storia di cosa è successo sin dall’inizio, ossia di cosa la UAC avesse trovato su Marte, come avesse tentato di usarlo e come fosse andato tutto storto – o tutto secondo i piani (di Betruger). Fantastico il design dei mostri, sempre fedeli a se stessi eppure rinnovati. L’atmosfera era come sempre inquietante, mi sono rimaste impresse alcune situazioni: per esempio, passando da una specie di sala macchine immersa nella nebbia, ho prima sentito un rumore, poi ho visto emergere delle ombre che si sono rivelate zombi; più avanti nel gioco, ho sentito sussurri negli angoli di stanze isolate e lamenti nelle pareti dell’Inferno. Persino un po’ di humor: in una zona “infernalizzata” ho trovato un computer dove qualche demone aveva scritto una specie di circolare per richiamare i compagni all’ordine durante i riti satanici! O qualcosa di simile, comunque cose fuori di testa. La colonna sonora, da quanto ricordo, è praticamente inesistente, a parte qualche effetto sonoro in alcune situazioni e scene animate (bello quello dell’incontro col Cyberdemon). Però l’introduzione vanta un brano magnifico, che per fortuna ho trovato in versione extended, e che, naturalmente, lascio qui. Chicca: nella versione Xbox, a gioco completato, si sbloccava il Doom originale come bonus, esattamente come accadeva nel port di Return to Castle Wolfenstein (cosa buona a sapersi). Altra cosa: giocai anche l’espansione, Resurrection of Evil, più dinamica, ma anche più corta.

Un’ultima considerazione sull’onda dei ricordi. Credo che l’accoppiata Doom e Mortal Kombat II su SNES sia stata una delle esperienze estetiche più luciferine che mi sia potuta capitare durante la prima adolescenza. Il televisore sembrava colare di liquidi infernali e invadere le coscienze mia e di mio fratello, ricordo infatti che un giorno ci siamo guardati e detti “oh, ma non sarà che davvero c’è lo zampino del diavolo?!”, ovviamente ridendo, scherzando e segretamente sudando per non farcela sotto. Bei tempi, cazzo. Bei tempi. Le rare volte che ho la possibilità di rigiocare a questo capolavoro, è come se tornassi in luoghi familiari a trovare dei vecchi amici, per massacrarci insieme.

Auguri, Destino Funesto! Grazie per tutto il massacro.


Video sulla situazione israelo-palestinese


In ricordo di Michela Murgia

Stavolta sono serio. Michela Murgia è stata una intellettuale molto interessante, ho apprezzato molto il suo lavoro, perché mi dava fastidio, mi scomodava, mi costringeva a riflettere per trovare cose da risponderle (nella mia testa, visto che non l’ho mai conosciuta di persona). Mi stava cordialmente antipatica, sapeva essere irritante, ma nel modo giusto, quel modo che a me serve come sfida per pensare. Ho sempre ammirato la sua lucidità, il suo giudizio affilato, la sua bravura e accortezza con le parole, così come il rifiuto di essere conciliante, di smorzare il tono militante per non provocare scontri. Allo stesso modo, ho invidiato la sua resistenza di fronte all’orrore degli attacchi su internet, portati da vermi umanoidi senza dignità né senso di esistere. Certo, una resistenza difficile, perché nessuno è davvero invulnerabile, nessuno è “coperto di teflon” per farsi scivolare le cose addosso; nei suoi momenti intimi deve aver sofferto e non poco. Rimanendo però fedele a se stessa, ha dato un grande contributo ed esempio di come possano, e forse debbano, essere oggi gli intellettuali di questo paese. L’unica cosa su cui, in verità, avevo delle riserve, era la sua tendenza ad abusare dell’accusa di fascismo: quando ci vuole, ci vuole; ma se alla fin fine tutto è “fascista”, si depotenzia un’accusa invece grave e necessaria. In più, devo ammettere di avere una idea un po’ diversa del modo di porsi nel discorso pubblico, nel senso che se avessi la possibilità di intervenire in maniera intelligente e contribuire al dibattito, preferirei puntare più sulla comunicazione che sulla presa di posizione intransigente. Però capisco quella sua attitudine senza sconti, è stata quella a distinguerla da una massa di “intellettuali” meno avvezzi al confronto reale. Peraltro, sempre per il fastidio e l’irritazione che mi provocava, è stato anche grazie a lei se ho riflettuto meglio sul femminismo attuale, altrimenti piuttosto strano e assurdo in certe espressioni. Mi ha aiutato a capire, a interrogarmi nel modo giusto, a intendere bene cosa si voleva comunicare con certi slogan, certe battaglie, certi concetti nuovi e a loro modo “alieni” alla cultura politica italiana. Anche la sua critica letteraria è sempre stata interessante e diversa. Sono contento che i suoi ultimi giorni siano stati affrontati con quella serenità (generale) che si addice a chi accetta la malattia e la morte come parte della vita. Mi ha ricordato in parte Tiziano Terzani, che pure su diverse cose ho cordialmente detestato, apprezzandone però l’atteggiamento. Sentirò la mancanza di questa donna che rifiutava di stare zitta.


Memorie dal Metallo – V

Sommario

  • Metal e arte
  • Metal e cinema
  • Metal e videogiochi

Per concludere questa serie, condenserò alcune relazioni evidenti tra il Metal e varie forme artistiche di intrattenimento e immaginazione, che ne completano imprescindibilmente l’identità. Fa caldo e questa parte, che avevo iniziato tempo fa, è impegnativa se fatta bene… pertanto la farò male.

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Metal e arte

Il metal si combina molto bene con le arti grafiche, infatti non credo di esagerare se dico che una parte rilevante del fascino di un album deriva dalla sua copertina, che dice molto della band stessa. Gli Iron Maiden sono stati pionieri in questo. Anzi, volte l’artwork è molto meglio della musica incisa sul disco… e non mi sto riferendo a loro, ma per esempio ad alcuni dischi di Danzig; però ne parliamo dopo. Ora voglio iniziare con un paio di artisti divenuti famosi nel tempo, anche grazie al lavoro sulle copertine musicali. [Ho usato le immagini su wikipedia per la maggior parte, ma sono piccole. Cercatene voi altre più grandi, per favore.]

Il primo di cui voglio parlare, come dovrebbe ormai essere intuibile e scontato è Joe Petagno, l’ideatore dello Snaggletooth per i Motorhead e autore di quasi tutte le loro copertine. Una cosa che mi è sempre piaciuta è vedere una mascotte evolversi nel tempo: dall’originale a Overkill, da Orgasmatron a Sacrifice, da Snake Bite Love a Inferno e infine a Kiss of Death, dove lo Snaggletooth “muore” (fine della collaborazione tra artista e gruppo). Senza dimenticare lo straordinario Another Perfect Day e tutti quelli che non ho mensionato. Al di là della mascotte di Lemmy & co., Petagno ha naturalmente lavorato con molti altri gruppi.

Un altro artista che mi ha colpito negli ultimi anni, altrettanto infernale nei temi e forse più morboso, è Eliran Kantor, i cui soggetti sono spesso corpi deformi in situazioni violente, ma con una vena “classicista” e genericamente calma, che rende tutto più inquietante. Nella sua pagina trovate tutto.

Al di là degli artisti, ci sono poi copertine affascinanti, a iniziare da Arise dei Sepultura, che sembra avere un dettaglio in più ogni volta che la guardo; è un po’ l’essenza del metal estremo, per me.

Avendo nominato Danzig, intanto è interessante notare che il suo simbolo, presente sulla copertina del primo album, è un’appropriazione indebita da un fumetto (indebita perché lui non ha mai ammesso di aver “rubato” il disegno, avendolo ridisegnato uguale). La cosa però si sposa bene con la sua passione per i fumetti, perché una versione simile se l’è fatta ridisegnare da Simon Bisley per un altro disco, continuando la collaborazione per altri due album almeno, questo e questo. Dicevo che a volte la cover è meglio del disco: io adoro Danzig, sia chiaro, ma nella seconda metà degli anni novanta si è dato all’industrial, e non tipo Rammstein, proprio industrial elettronica, che io detesto. Eppure la copertina dell’album 6:66 Satan’s Child era di Bisley! C’è mancato poco che lo prendessi. Perché Bisley è uno dei grandi disegnatori di Lobo, è esagerato, sporco, truculento, sia in bianco e nero che a colori; infatti ha collaborato molto a Verotik, il progetto fumettistico di erotic-horror di Danzig.

Non sono invece un fan di King Diamond, ma il suo Voodoo è nella mia collezione in quanto l’artwork è eccezionale. Non solo la copertina, anche l’interno; racconta benissimo la storia del concept album, rovinato solo dal suo canto in falsetto. Questo è un esempio perfetto di acquisto basato sulla pura estetica, sperando che la musica fosse decente (e a modo suo lo è).

Poi ci sarebbe tutto il putrido mare di copertine in ambito death metal, che fanno a gara per essere più horror/splatter di quanto sia sopportabile. Alcune, come quelle dei Cannibal Corpse, sono decisamente sopra le righe, eppure dettagliate e interessanti, come questa. Mi è tornata in mente quando ho giocato a Splatterhouse.

Qualcosa di più bello, adesso. I Judas Priest possono vantare copertine molto particolari, come questa, questa, ma anche questa e persino questa. C’è qualcosa nello spazio, nel dinamismo dei disegni, nell’uso dei colori, che le rendono un oggetto estetico molto attraente; in questo caso, la musica non delude di certo.

…oddio, ci sarebbero tanti altri esempi da fare, ma sto terminando questa quinta parte alle 02:00 e sto davvero fondendo. Mi verranno in mente altre grandi copertine e forse piazzerò un aggiornamento, ma ora devo fermarmi. Quanto segue è invece più completo.

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Metal e cinema

Ora approfondiamo un po’ la questione del cinema, perché ho nominato già Fusi di testa, pieno di fantastiche canzoni (oltre che di stile di vita desiderato) e devo dire che dalle colonne sonore degli anni Novanta ho tratto parecchie altre grandiose conoscenze. Era la mia adolescenza, tutta questa roba la ascoltavo con un lettore CD portatile che a me sembrava futuristico, con gli auricolari mentre disegnavo su quaderni a righe spillati uno all’altro. Che nostalgia, per quei momenti. Per altri no. Ma per quelli sì.

Il primo che voglio citare qui è senza dubbio Mortal Kombat (1995), all’epoca l’unico adattamento veramente fedele al videogioco da cui era tratto (lo sottolineo perché nei due anni precedenti uscirono anche Street Fighter – Sfida finale e Super Mario Bros., che col materiale originale si erano presi ENORMI libertà). La colonna sonora è molto variegata, spaziando dalla musica elettronica – indimenticabili i titoli di testa – e al metal, appunto; e in questo aspetto sono riconoscente a chi scelse i Napalm Death per la scena del combattimento di Goro. Nell’album erano incluse anche canzoni non utilizzate nel film e una di queste era dei Type O Negative, nello stesso periodo in cui ne vedevo i video su Mtv. Sempre riguardo agli scontri, quello che secondo me è il miglior duello, Johnny Cage contro Scorpion, vibra sulle note dei Fear Factory. Qui lascio anche una versione estesa della colonna sonora, che include la musica orchestrale composta appositamente.

Un altro film, molto sottovalutato in sé, ma con una colonna sonora da urlo, è Last Action Hero – L’ultimo grande eroe (1993), di cui lascio intanto l’album completo. Gli AC/DC aprono con una vera perla, mentre scopro nuove vette per i Megadeth e sento, credo per la prima volta, gli Alice in Chains. E ho l’occasione di conoscere meglio gli Anthrax, che già avevo sentito assieme ai Public Enemy e avrei ritrovato poi nei dintorni di Twin Peaks (lo so che sono parte dei Big 4, ma all’epoca le informazioni c’erano solo su cartaceo e in tv).

Come al 90% del pubblico, Il Corvo 2 (1996) non è piaciuto neanche a me. Ma l’album uscito all’epoca mi ha presentato artisti nuovi e diversi, da PJ Harvey a Iggy Pop (che però già avevo sentito in Trainspotting), da Hole a White Zombie.

Poi c’è Fuga da Los Angeles (1996): nell’album di canzoni, da affiancare alla colonna sonora originale di Carpenter e Walker (che stavo cercando e non trovai mai), presenta quello strano mix in voga all’epoca di “music from and inspired by”, cioè le canzoni effettive del film e altre buttate dentro per riempire il disco. Grazie a questo ho conosciuto i Tool, gli Stabbing Westward (poi ritrovati in un videogioco di Duke Nukem – del cui tema principale fecero peraltro una cover i Megadeth, vedete come tutto gira?), ‘naltra volta White Zombie e, tra gli altri, i Butthole Surfers, della cui canzone a quanto pare non c’è traccia su YouTube.

Forse lo ho già nominato, comunque Dal Tramonto all’Alba (1996) è un altro tesoro di artisti: tra i molti, Tito & Tarantula, The Blasters e ovviamente i ZZ Top su tutti (la versione nel film/OST è leggermente diversa da quella nel video ufficiale, ma la sostanza non cambia).

Airheads (1994) non lo ho visto finora, ma lo conosco per un procedimento al contrario: ho scoperto il film grazie al video dei Motörhead.

Anche nell’album del deludente Spawn (1997) ci sono delle chicche, sebbene sia molto più evidente la vena elettronica; infatti diversi brani sono collaborazioni tra artisti di vario tipo e remixatori, però Filter & The Crystal Method, Marilyn Manson e Orbital con Kirk Hammett sono ottime scelte.

Al volgere del secolo, le cose sono cambiate. Dei pochi film successivi agli anni Novanta che mi hanno lasciato un segno, segnalo certamente Fantasmi da Marte (2001), la cui colonna sonora originale è stata fatta da John Carpenter in collaborazione con altri artisti e, se si eccettua l’introduzione, ha una carrellata di brani heavy metal strumentali da paura. Chiudo quindi con L’uomo d’acciaio (2013), che mi ha fatto scoprire uno splendido brano di Chris Cornell mai sentito prima, non avendo all’epoca ancora visto il film Singles – L’amore è un gioco (1992), che è a tutt’oggi una raccolta dei migliori artisti della scena grunge.

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Metal e videogiochi

I videogiochi sono stati un altro grande campo di influenze musicali. Di Billy Kane ho già detto, e in verità devo tralasciare parecchie musiche che non sono metal e, dunque, non posso inserire qui senza trasformare questo articolo in un altro (sarebbe meglio semmai fare un altro articolo più generale).

Doom (da cui la scelta dell’immagine qui sopra), uno di quei giochi che hanno segnato la storia, è notoriamente pieno di riferimenti alla scena musicale degli anni Novanta; per questione di lunghezza, mi limito a segnalare un paio di video che provano a dar conto di quanta musica sia stata ‘copiata’ da Bobby Prince, qui e qui. Alcune musiche sono evidenti, altre meno, io ne ho riconosciute di più in Doom II. Comunque sia, massacrare demoni su quelle note è un’esperienza fantastica; ne segnalerei peraltro la versione pompata dell’altrimenti pessimo port del 3DO e la versione pienamente metal di Sonic Clang. Insomma, Doom e heavy metal vanno a braccetto.

Ci sono però videogiochi che vantano le canzoni originali, quelle degli artisti veri: ho speso anni, prima di internet, per trovare le musiche rese in Rock’n’Roll Racing, nella versione SNES. Io non oso pensare a quanto abbiano sborsato per i diritti di Black Sabbath, Deep Purple, George Thorogood e persino Harry Mancini…! All’epoca non avevo idea che fossero tutte musiche reali, conoscendo solo il tema di Peter Gunn, grazie ai Blues Brothers. Poi vidi Robocop 2 e mi accorsi che il violinista-contorsionista stava suonando una musica del gioco! Uaoh! E come mai? Da lì, piano piano, recuperai i capolavori che stavo inconsapevolmente ascoltando.

Stessa questione per Road Rash nella versione PlayStation, che mi ha aperto al mondo del grunge, tra l’altro presentando artisti che in seguito non hanno lasciato un gran segno, come Paw o Hammerbox, a differenza di Soundgarden o Therapy?. Considero questo gioco come una porta verso un mondo che si è fuso incondizionatamente alla mia formazione.

Chiudo con Quake II, la cui colonna sonora, di Sonic Mayhem, è il ricordo più vivido delle serate universitarie solitarie, passate in un monolocale sperduto nella grande città a sparare, mangiare porcherie, fumare sigari puzzolenti e distrarsi dalla disperazione esistenziale (stesso periodo di quando comprai il disco dei Six Feet Under, come detto nella prima parte). E con Loaded, che si intrecciava coi fumetti di Lobo.

∼∼∼

Chiosa di un amico metallaro, uno che vive il metal:

“Non sei tu a scegliere il Metal; è il Metal a scegliere te.”

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Le memorie dal metallo forse non sono esaurite, ma le cose più importanti ci sono. Grazie per aver seguito questo treno dei ricordi.